Cuba: c’è vita prima del 26 luglio 1953?
di Giorgio Uberti


È l’alba del 26 luglio 1953. Un gruppo di 135 guerriglieri comandati da Fidel Castro, Raul Castro e Abel Santamaria, hanno assaltato la Caserma Moncada. L’azione, pur non avendo avuto il successo sperato, è considerata il punto di partenza della lotta rivoluzionaria, contro la dittatura di Fulgencio Batista, che il 1° gennaio 1959 è entrata trionfalmente a L’Avana.
«In ogni villaggio, anche il più piccolo e isolato […] campeggia almeno un murale che ricorda gli eventi del 1958-59 e invita ogni cittadino a difendere quel cambiamento, in una sorta di rivoluzione perpetua e permanente». Così scrivevano Silvia Lotti e Igor Pizzirusso dopo il primo viaggio di PopHistory a Cuba (http://www.pophistory.it/placetobepop/volti-monumenti-e-murales-cuba-e-la-sua-rivoluzione-dopo-quasi-60-anni/). A distanza di un anno, PopHistory è tornata sull’isola più grande dei Caraibi con una domanda provocatoria: c’è vita prima della revolucion?
Prima della rivoluzione Cuba viene ricordata come l’isola del peccato: una società consumata dal gioco d’azzardo, della mafia e della prostituzione. Un’isola abitata da un popolo degradato e affamato, la cui occupazione principale era di provvedere ai turisti americani negli hotel, nelle spiagge e nei casinò di lusso dell’Avana. Al contempo però Cuba veniva indicata come uno dei paesi tecnologicamente più avanzati e di successo di tutta l’America Latina. Dotato addirittura di un sistema televisivo nazionale entrato in funzione prima della nostra RAI. Due narrazioni speculari, in cui la più alta modernità sembra mescolarsi con i drammatici resti di un passato di sudditanza. Così, queste immagini distorte ci impediscono di comprendere la complessità della storia portandoci verso un’immagine semplicistica di un paese “primitivo” governato dal sesso e dal crimine.
E se fosse anche questo un potente impianto narrativo che ha irrimediabilmente distorto la percezione globale della storia dell’isola? E se anche le testimonianze monumentali sedimentate nei secoli fossero state piegate a questa narrazione artificiale? E se ora che il vento rivoluzionario entra in una fase più matura emergessero nuove sfaccettature di un passato non elaborato, cosa potrebbe accadere?


CIVILTÀ PRECOLOMBIANE – Per rimettere in ordine il puzzle, seppure in maniera non esaustiva, dobbiamo partire dall’inizio. Guanajatabey, Ciboney e Tainos, sono le tre civiltà precolombiane che abitavano l’isola e che per varie ragioni sono state decimate dall’arrivo degli Europei. Non hanno lasciato discendenti. Non godono della popolarità degli Inca, dei Maya o degli Aztechi. Non hanno generato il fascino letterario di Apache, Cheyenne o Mohicani. Anche se secondo alcune interpretazioni il nome Caraibi sembra derivare proprio da una parola del loro vocabolario. Tracce di questo popolo si trovano in qualche sito archeologico e nelle ricostruzioni museali dei loro villaggi realizzate più per scopo turistico. L’eredità culturale di questo popolo non ha la forza per poter generare sentimenti di identificazione nel popolo cubano. Così le civiltà precolombiane sembrano non attirare nessuna nuova narrazione o sentimento di riappropriazione.
COLONIALISMO – E poi è arrivato lui! Il 28 ottobre 1492, nell’ambito del primo viaggio, Cristoforo Colombo sbarca sull’isola credendosi in Giappone. Nel 1511 Diego Velàzquez de Cuellar (non il pittore), che aveva capito di non essere in Giappone, fonda Baracoa, la più antica città presente ancora oggi sull’isola. Da quel momento, quasi senza interruzioni, per i successivi 387 anni, Cuba è rimasta una colonia spagnola. A partire dalla lingua le tracce di quest’epoca sono ovunque. Bisognerebbe demolire quasi ogni città per sovrascrivere questa narrazione. L’immancabile statua di Colombo proprio nel cortile del museo della città di L’Avana, cannoni spagnoli usati come dissuasori del traffico per le vie della capitale, poi chiese, palazzi e fortezze. Inoltre, vi è un curioso fenomeno di riappropriazione, iniziato nel 2014, che sta coinvolgendo le principali città. Palinsesti, manifestazioni pubbliche, grafiche e loghi accattivanti sono protagonisti di un programma di festeggiamenti che è iniziato con i cinquecento anni dalla fondazione di Trinidad, è passato ai duecento anni di Cienfuegos e culminerà con i cinquecento anni di L’Avana. Un fenomeno che sembra però coinvolgere solo i grandi centri urbani o comunque la popolazione più acculturata (ricordiamo che il 65% della popolazione vive in centri con una popolazione inferiore ai 100mila abitanti). Difficile però immaginare un neoborbonismo in salsa cubana in risposta al rinnovamento delle istituzioni rivoluzionarie, anche perché non tutti i cubani discendono da coloni spagnoli.
SCHIAVISMO – Circa il 30% della popolazione cubana è infatti legata al continente africano. Questo aspetto non è così marcato come in altre isole delle grandi Antille ma è alla base di una frammentazione sociale che finisce per percepire in maniera opposta il tema delle origini. Tra il 1510 e il 1873 si stima che sull’isola giunsero quasi un milione di schiavi dall’Africa subsahariana, anche se la quasi totalità arrivò sull’isola tra Sette e Ottocento. Proprio la liberazione degli schiavi della tenuta di Carlos Manuel de Cespedes il 10 ottobre 1868 è l’evento simbolo che sancisce la libertà di Cuba e la nascita della prima Repubblica Cubana libera. La narrazione rivoluzionaria non ignora questo personaggio e anzi lo fa proprio, indicandolo come il punto di partenza della lotta sociale. Le testimonianze di questo processo coinvolgono invece molto più le zone rurali, dove sono ancora visitabili le piantagioni di canna di zucchero e tabacco con tutto il loro apparato di controllo. Inoltre, vi stupirà scoprire che solo il 60% della popolazione è cattolica. Circa il 20% dei cubani pratica la santeria, una religione legata agli schiavi africani e ai loro discendenti che proprio il regime castrista, per valorizzare la cultura popolare e in funzione anticattolica, ha contribuito a rilanciare. Ex piantagioni schiaviste e templi della santeria sono dunque luoghi perfetti in cui possono generarsi narrazioni inedite in grado di coinvolgere gli strati più poveri della popolazione.
INDIPENDENZA – Abbiamo parlato di de Cespedes, primo presidente eletto della Repubblica Cubana in armi nel 1868. In realtà le prime istanze di indipendentismo risalgono già al 1717 quando a causa dell’opprimente regime fiscale imposto da Madrid i vegueros (coltivatori di tabacco) in rivolta costrinsero il governo a lasciare l’isola. Un lento e graduale cammino quello dell’indipendenza dalla Spagna che ha attraversato due secoli ed eventi epocali che hanno lambito l’isola senza mai travolgerla totalmente. Un cammino in cui si contano tre guerre laceranti il cui obiettivo è stato raggiunto pienamente solo nel 1898 e che portato alla formazione di una classe politica locale i cui nomi risuonano ancora nella toponomastica e nella statuaria di tutte le principali città cubane: Ignacio Agramonte, Antonio Maceo, Máximo Gómez, per arrivare all’onnipresente José Martì (l’equivalente di Mazzini e Garibaldi, riuniti in un’unica persona). Un processo che ha accentuato la spaccatura dell’isola tra un occidente con capitale L’Avana, più vicino agli Stati Uniti, e un oriente con capitale Santiago, più vicino alle istanze politiche nazionali. Sebbene questi nomi e questo processo siano entrati a pieno titolo nell’Olimpo rivoluzionario (tanto che il memoriale a José Martì domina la stessa Piazza della Rivoluzione di L’Avana) le vicende legate all’indipendenza dalla Spagna miravano alla costituzione di una moderna democrazia liberale. Un’idea che però potrà essere riletta sotto una nuova luce solo se sgombrata della pervasiva retorica socialista.
DITTATURA – Arrivati a questo punto la vera domanda sembra non essere tanto se ci sia vita prima del 26 luglio 1953 ma piuttosto se la vita della Repubblica Cubana, iniziata ufficialmente il 20 maggio 1902, (giorno del riconoscimento dell’indipendenza del Paese e dell’elezione del primo presidente Tomas Palma) sia in qualche modo separabile dalla centralità statunitense e possa essere rielaborata anche per altri fattori oltre all’opulenza, alla corruzione e al malaffare. Per rispondere dovremmo tenere conto del contesto globale, dei grandi totalitarismi, degli effetti delle due guerre mondiali, dovremmo analizzare i rapporti dei vari governi, anche dittatoriali, che si sono succeduti e delle costituzioni varate in questi cinquant’anni. Inutile dire che tentare di semplificare ed elaborare una narrazione così complessa sia quasi impossibile. Tra le tracce più ingombranti di questo periodo troviamo la base aeronavale di Guantanamo, affittata in perpetuo agli Stati Uniti dal primo governo cubano. Troviamo le ville degli americani più o meno appariscenti, sul lungomare di Cienfuegos, famose per i festini dell’alta società. Troviamo il nuovo Capitolio Nacional ma anche i grattacieli dell’Habana Hilton e del Capri. Troviamo il coche Mambi (esposto in bella vista accanto al primo parlamento cubano) il treno presidenziale simbolo dello sfarzo e del lusso messo in contrapposizione all’arretratezza delle campagne che attraversava. Simboli che offuscano un’elaborazione storica che sull’isola sembra essersi arrestata. Cinquant’anni di storia sintetizzati in un unico protagonista: il dittatore Fulgencio Batista. Cinquant’anni di storia compressi tra le violenze che accompagnarono il colpo di stato che Batista organizzò il 10 marzo 1952 e la risposta di quei 135 guerriglieri rivoluzionari il 26 luglio 1953.
CONCLUSIONI – Quello che abbiamo voluto raccontare sono solo le riflessioni di un turista che si approccia per la prima volta all’isola provando a grattare dalla superficie le tracce di una narrazione rivoluzionaria che ha plasmato l’immagine di Cuba. Avevano ragione Silvia Lotti e Igor Pizzirusso quando dicevano che «è la rivoluzione stessa ad essere davvero un fenomeno pop a Cuba, con un’ostentazione dalle sembianze così semplici e genuine da travalicare i limiti della mera propaganda». Una narrazione che appare omogenea e immutabile. La complessità di una storia plurisecolare ridotta a cliché culturali e riassunta in un tutto indifferenziato. Un’eterna dicotomia tra città e ruralità, tra discendenti di coloni e discendenti di schiavi, tra un oriente e un occidente, tra il capitalismo e il comunismo, tra i fatti del 1952 e quelli del 1953. Due mondi complessi che si guardano oltre una storia che sarà certamente il terreno di scontro della Cuba del prossimo secolo.