Dall’Alto Isontino alla Carniola: un percorso tra Prima e Seconda guerra mondiale
di Andrea Oldani
Cividale del Friuli, estate 2019. Questa volta, a differenza del longobardo Alboino, la nostra meta non è l’Italia bizantina, bensì la Slovenia. Seguiamo le indicazioni per il paesino di Kobarid, ben più noto in italiano con il nome di Caporetto. Non è cambiato molto rispetto alla descrizione che ne diede Hemingway in Addio alle Armi di “quattro case con una chiesa dal tetto rosso”: le case sono aumentate un po’ ma il paese non arriva nemmeno a 1200 abitanti. Avvertiamo immediatamente questo iato tra le sue dimensioni attuali e l’alone carico di significato negativo che la ammanta e forse ci sentiamo un po’ delusi. Com’è possibile che un paese così piccolo possa ancora oggi avere un impatto così forte sull’opinione comune italiana? Com’è possibile che questa valle lussureggiante, attraversata dallo smeraldino Isonzo, possa essere il simbolo, al pari forse dell’8 settembre, della debacle di un’intera nazione?
Decidiamo di scoprirlo recandoci in visita al Museo di Caporetto, collocato dietro il nostro B&B. Veniamo accolti dalla cortesia tipica che contraddistingue il popolo sloveno e gli addetti alla biglietteria ci invitano a vedere un documentario di circa 15 min in italiano sulla Battaglia di Caporetto. É senza ombra di dubbio il miglior modo per comprendere il contenuto dell’esposizione permanente del museo assieme al contesto che portò alla disfatta italiana del 24 ottobre 1917 e la ritirata delle settimane seguenti. Terminata la proiezione saliamo al primo piano dove ci aspettano: la Sala del Monte Nero con un plastico che mostra le diverse linee di difesa austriache e italiane con le loro intricate trincee; la Sala Bianca incentrata sulle precarie condizioni di vita al fronte dei soldati tra reperti fotografici e archeologici; la Sala delle Retrovie, parola che evocava nella mente dei combattenti riposo, quiete e fine della paura; e, infine la Sala Nera con le sue crude foto della morte in trincea. Al secondo piano, invece, il corridoio centrale è un tripudio di bandiere, fucili, elmetti e mitragliatrici, mentre la sala laterale ospita un enorme plastico che, su richiesta dei visitatori, può essere acceso e mostra con giochi di luce le varie fasi dell’offensiva austro-tedesca. Infine, un po’ nascosta, c’è una piccola stanzina. Spostata la piccola tenda entriamo in uno spazio angusto e buio illuminato da una flebile luce: è quella di un giovane alpino che sta scrivendo una lettera al padre. Ci accorgiamo che siamo dentro alla ricostruzione di un alloggiamento in alta quota e restiamo in silenzio ad ascoltare la voce narrante. È stata un’esperienza molto immersiva e coinvolgente, in grado con poco di ricreare quei pochi momenti intimi e personali a cui avevano accesso i soldati in trincea.
Una volta terminata la visita decidiamo di iniziare il cosiddetto “itinerario storico di Caporetto”, un percorso di 5km da percorrere a piedi e che permette di vedere l’Ossario Italiano, alcune linee difensive e soprattutto godere delle vista sull’Isonzo. L’Ossario, realizzato nel 1938 per volere di Mussolini, domina con le sue linee squadrate la collina sopra Kobarid e i nomi dei caduti scolpiti nella pietra ricordano 7014 morti combattendo nell’Alta valle dell’Isonzo. L’itinerario poi prosegue verso il Tonocov Grad, che con le sue rovine altomedievali costituisce il punto più alto dell’itinerario e un esempio di straordinaria continuità insediativa, poiché abitato sin dall’età del rame. Dal Tonocov Grad si può soltanto scendere inevitabilmente verso le trincee italiane, oggi nascoste dalla vegetazione che ha preso il sopravvento tra muri di cemento, strettoie e scalinate scavate nella roccia simili alla Scala Tortuosa di Tolkieniana memoria. Un ponte in legno consente di attraversare le rapide della forra dell’Isonzo e approdare all’altra sponda in totale sicurezza. Completano il percorso storico le cascate del ruscello Kozjak, il ponte napoleonico e altre linee di difesa italiane.
Il risveglio a Kobarid la mattina seguente è allusivo e al contempo simbolico. Tutto tace a fondovalle. Il cielo è cupo. L’aria è umida e fresca. Dinnanzi ai nostri occhi si alza una coltre bianca di nebbia e nuvole basse. Fu questo ciò dominò la valle di Caporetto quel lontano 24 ottobre? Si concluse così la visita di questo piccolo paese sloveno che è entrato nella memoria collettiva italiana e che, a distanza di un secolo, è sinonimo di disfatta totale e inefficienza della classe dirigente.
Proseguimmo quindi verso la seconda tappa del viaggio ovvero Bovec, o Plezzo in italiano, con l’Isonzo come fedele compagno di viaggio. Arrivati a Bovec ci dirigiamo a piedi verso Ravelnik, un museo a cielo aperto dove sono state ricostruite le trincee austriache. Dinnanzi ai nostri occhi si palesa una collina fitta di boschi che nasconde ogni traccia della Grande Guerra. È un invito ad andare a scoprirla. Così facendo iniziano ad affiorare i primi camminamenti, postazioni di comando e per cecchini e infine l’infermeria. Le difese originarie austriache, come detto prima sono scomparse e sono state ricreate a perenne memoria degli orrori della guerra. Il silenzio e la natura hanno preso il posto del frastuono dei cannoni e del filo spinato. La tranquilla e lussureggiante campagna slovena non è, però, ancora riuscita totalmente a rimarginare le cicatrici della guerra: in particolare restano ben visibili sulla sommità di Ravelnik i crateri delle granate italiane. Per completare la nostra visita dei luoghi della Grande Guerra a Bovec prendiamo la macchina e raggiungiamo i forti di Kluže e Hermann, posti a 10 minuti dal paese. Il forte di Kluže fu innalzato inizialmente nel XV secolo come struttura lignea per impedire che i Turchi attaccassero la Carinzia austriaca e nei secoli successivi il legno venne sostituito con la pietra, mentre la forma attuale venne data nel XIX. Durante la Prima Guerra Mondiale rivestì un ruolo importante nella difesa del settore e oggi ospita un piccolo museo sulla Grande Guerra. Forte Hermann, invece, si trova sulla cresta montuosa del Rombon che domina dall’alto la strettoia protetta dal forte di Kluže. Venne realizzato a fine XIX secolo dagli austro-ungarici ma venne reso inutilizzabile dai colpi dell’artiglieria italiana. Ancora oggi è possibile vederne i resti percorrendo un sentiero di 15/20 min tra i boschi. Se a Ravelnik abbiamo intuito quale potesse essere l’impatto di una granata, a Fort Hermann restiamo esterrefatti dal suo concreto potenziale distruttivo. Pareti, muri frantumati e postazioni di difesa scoperchiate attendono il visitatore. Purtroppo, e questo è un grande rammarico, il sito non è stato messo in sicurezza e come dicono in Slovenia lo si può visitare “a tuo rischio e pericolo”. Sarebbe interessante se il governo sloveno decidesse di recuperarlo e renderlo visitabile attraverso un percorso di pannelli esplicativi più completo rispetto a quello attualmente esistente.
Il giorno seguente prendiamo la strada per il passo di Vršič, nel parco nazionale di Triglav per raggiungere la località di Bled, famosa per il suo lago. La strada, costeggiata dall’immancabile Isonzo, inizia a inerpicarsi sul fianco della montagna e in men che non si dica ci troviamo circondati da boschi. Arrivati a quota 1600 metri ci fermiamo per goderci il panorama e per salutare il grande fiume di Smeraldo e i luoghi della Prima Guerra Mondiale, convinti di esserceli lasciati alle spalle. Scopriamo, però, che nella discesa verso Kranjska Gora c’è una cappella ortodossa. Arrivati alla fine dei tornanti troviamo un parcheggio e notiamo molte persone che si incamminano per un sentiero che reca come indicazione “cappella russa”. Davanti ai nostri occhi svetta una struttura lignea dalle linee ortodosse. Ci fermiamo a leggere la sua storia. Durante la Prima Guerra Mondiale furono i prigionieri russi catturati sul Fronte Orientale a realizzare la strada che tutt’oggi permette di valicare il passo. Purtroppo, durante i lavori una valanga travolse e uccise circa 300 di loro. Venne quindi eretta questa piccola cappella per ricordarne la morte tragica.
Giunti nei pressi di Kranjska Gora ci fermiamo al lago di Jasna e nel voltarci indietro verso il passo appena valicato il pensiero corre subito a quanto visto sui luoghi della Grande Guerra. Luoghi che sono stati restituiti alla natura e alla memoria dell’uomo per ricordare il terribile prezzo pagato in vite umane. Ricorrono alla mente i versi eterni del poeta inglese Wilfred Owen, testimone delle sanguinose battaglie sul Fronte Occidentale, che nella poesia Dulce et decorum est smentisce con amara ironia il latino Orazio “To children ardent for some desperate glory, The old Lie: Dulce et decorum est Pro Patria mori”.
Dopo esserci riposati presso il lago di Jasna proseguiamo nel nostro itinerario verso Bled, il “Lago di Como” sloveno, su cui, però, non voglio dilungarmi poiché di luoghi storici ve ne sono ben pochi. Preferisco, dunque, concludere questo #PlacetobePop descrivendo alcune località limitrofe dal profondo valore storico.
Nella vicina Radovlijka è possibile visitare il museo dell’apicoltura, attività tradizionale slovena, che coniuga aspetti legati alla scienza, biologia, divulgazione, storia…e arte. Infatti, una parte considerevole dell’esposizione museale raccoglie esempi di arte popolare slovena i cui temi dominanti sono quelli del sacro – sacre famiglie, adorazioni, scene bibliche – e profano – vita quotidiana o scene militari -. Ma ciò che è insolito è il supporto materiale, ovvero le arnie per le api che si trasformano così in uniche opere d’arte popolari.
A 10 min da Radovlijka c’è forse il museo sloveno che ho apprezzato maggiormente: il Muzej Talcev di Begunje perché ha una storia che in pochi, al di fuori della Slovenia, conoscono ed è quindi nostro dovete di Public Historians farla conoscere. Begunje ospitava già un castello/residenza tardomedievale che nel corso dell’Ottocento venne adibita a prigione femminile gestita dalle Sorelle della Carità di San Vincenzo de Paoli. Quest’ordine religioso si occupava di recuperare le donne attraverso l’educazione e i lavori manuali quali l’attività tessile. Con l’aggressione della Germania nazista al Regno di Jugoslavia nel 1941 l’intero complesso venne requisito e trasformato in una prigione per oppositori politici, deportati in transito verso i campi di sterminio e persone sospettate di collaborare con la resistenza jugoslava. In totale vennero imprigionate 11477 persone di cui 9196 uomini e 2281 donne. Circa metà dei prigionieri aveva meno di 30 anni e 897 di loro vennero condannate a morte per fucilazione dopo essere state torturate. Il 4 maggio 1945 il distaccamento Kokra dell’Armata Partigiana liberò la prigione. Durante l’epoca titina il complesso ospitò una casa di correzione per donne, prigionieri e oppositori politici e una scuola di polizia. Attualmente ospita un ospedale psichiatrico. Il Muzej Talcev è stato ricavato in una piccola ala dell’ospedale e si sviluppa lungo un corridoio su cui danno dieci celle. Sulla parete del corridoio sono stati appesi i manifesti relativi alle esecuzioni sommarie e alle rappresaglie perpetrate dalla forze d’occupazione tedesche, mentre le celle sono state sottoposte a un brillante intervento di valorizzazione. L’aspetto non è mutato. Restano sempre angusti spazi detentivi, bui e umidi con i muri pieni di scritte e graffiti. Queste testimonianze grafiche, però, sono state salvate e rese visibili attraverso installazioni luminose con luci al led. Riportano pensieri e disegni realizzati dai prigionieri consumati dalla noia, dai deportati in attesa di essere trasferiti o dai partigiani in attesa di essere fucilati. È una visita che lascia forti emozioni e che merita di essere effettuata.
A Kropa invece si trova il Museo della lavorazione del ferro. Questo paesino di montagna vanta una secolare tradizione nella forgiatura e nella lavorazione del ferro, che venne meno a metà del XX secolo a seguito dell’avvento dell’automazione in ambito industriale. Nonostante questo sono ancora ben visibili alcune tracce di questo passato artigianale: delle 20 presenti un secolo fa sono sopravvissute soltanto una forge e una fucine oramai dismesse. Il Museo della lavorazione del ferro, invece, racconta la dimensione umana e sociale di questa realtà imprenditoriale. Dalla lavorazione artigianale d’età medievale e moderna si passa alla dimensione cooperativistica-imprenditoriale ottocentesca che visse un vero e proprio boom economico grazie alle commesse statali per la realizzazione delle ferrovie. Plastici e modellini mostrano l’interno e il funzionamento di queste piccole fabbriche che, però, vennero ridimensionate alla produzione di chiodi per scarpe da lavoro nel momento dell’avvento del lavoro meccanizzato. Su richiesta dei visitatori i membri del gentile personale mettono a disposizione la sala proiezioni per vedere due brevi filmati girati negli anni Cinquanta che mostrano la realtà di Kropa al suo tramonto.