Locandina del film tratta dal sito https://www.mymovies.it/film/2019/1917/

di Matteo Di Legge

“1917”
(2019, regia di Sam Mendes)

“I’m just a poor wayfaring stranger
Traveling through this world below
There is no sickness, no toil, nor danger
In that bright land to which I go”

Il filone dei war movies, reso ricco e florido dalla narrativa statunitense, che ha sempre teso a magnificare, non senza una certa dose di ragione, le imprese dei suoi soldati nella WWII e soprattutto nella guerra del Vietnam, che a partire dagli anni Ottanta è diventata epitome del conflitto per gli Stati Uniti, soprattutto al cinema, si nutre quasi sempre di storie semplici, contornate da mastodontiche scene di battaglia. La guerra viene trasmessa nella sua enormità e spettacolarità poichè è ciò che attira il pubblico e questa tendenza ci ha consegnato anche sequenze memorabili come lo Sbarco in Normandia ricreato nei minimi dettagli da Steven Spielberg in Salvate il Soldato Ryan, del 1998, film che sancisce una sorta di “rinascimento” per le rappresentazioni cinematografiche dedicate ai conflitti mondiali.

Ultimamente, tuttavia, il cinema ha riscoperto una dimensione più intimista, nella rappresentazione del conflitto, più rivolta verso il dramma umano che verso l’azione fine a sé stessa. Ne è un esempio Dunkirk, di Christopher Nolan, e prima di esso le due serie tv ritenute spin-off del film di Spielberg, Band of Brothers e The Pacific, che si sono concentrate in misura maggiore sulle persone, più che sull’azione bellica, peraltro comunque sempre presente e rappresentata in modo impeccabile.

Questa tendenza all’umanizzazione trova un magnifico compimento in 1917, l’ultima fatica di Sam Mendes, nella quale la macchina da presa è posta nel bel mezzo dell’elemento umano: con una scelta tecnica davvero singolare il regista ha girato l’intero film come un unico piano sequenza, una lunghissima scena di due ore nella quale non c’è mai uno stacco, un taglio o una dissolvenza. Naturalmente i tagli ci sono, ma sono così ben miscelati, amalgamati con la trama del film che risultano invisibili, riuscendo nell’intento di far credere allo spettatore di essere trascinato, volente o nolente, nel periglio di due uomini scelti per una missione suicida.

E’ il 6 aprile 1917, siamo in Francia, in piena Prima Guerra Mondiale. Due soldati inglesi vengono scelti per andare ad avvertire un reparto lì vicino di annullare l’attacco previsto per l’alba successiva poiché i tedeschi, che sembrano essersi ritirati, in realtà hanno solo spostato il fronte più indietro, in un complesso di trincee meglio difeso e blindato. Se non arriveranno in tempo milleseicento uomini andranno incontro alla morte, compreso il fratello di uno dei due. La tematica fraterna è un altro topos molto caro alla narrativa bellica: i commilitoni sono infatti considerati spesso fratelli (Band of Brothers) quando non sono davvero fratelli di sangue da salvare perchè gli unici ancora in vita (Private Ryan).

Tom Blake e William Schofield iniziano dunque un viaggio che è a metà strada tra il dantesco e il claustrofobico: la famigerata terra di nessuno, martoriata, infetta e cosparsa di morti raramente è stata resa con una simile efficacia, accresciuta dalla prospettiva totalmente personale ed intima di una cinepresa che segue i due come se fosse un terzo soldato. Noi siamo lì con loro, in tutto e per tutto, e sembra quasi di avvertire il peso dell’ elmetto, dei quattro chili e mezzo di legno e ferro del fucile Enfield tra le mani e i gibernaggi che ci segnano le spalle, mentre fiutiamo il fetore abominevole dei crateri pieni di acqua putrida; il boato delle esplosioni in luoghi angusti ci toglie il fiato e l’abbaiare delle armi ci fa rizzare i capelli sulla nuca (meritatissimo l’Oscar per il sonoro).

Attraversiamo nebbiosi luoghi liminali, ci intrufoliamo in trincee dismesse infestate dai topi, esploriamo retrovie deserte nelle quali il senso dell’abbandono è palpabile, quasi lunare, superiamo colline verdeggianti cosparse di ciliegi recisi per non fornire riparo, raggiungiamo paesi che bruciano, roventi come le mura della città di Dite, abitata da demoni dall’elmetto tedesco che ci inseguono attraverso i vicoli, mentre la luce impietosa dei bengala disegna ombre fluttuanti e semoventi.

1917 non è un’esperienza per i deboli di spirito, ma una scheggia di guerra umana nel vasto affresco dei conflitti tra nazioni. Sam Mendes, che dedica il film a suo nonno Alfred, che combatté in Francia tra il 1916 e il 1918, si affida ad una storia semplice, essenziale, per mostrare una guerra che sembra non avere confini né distanze. Siamo così calati dentro l’azione che non percepiamo mai, se non verso la fine, una dimensione alternativa al conflitto. Qualcuno potrebbe ritenere ciò un difetto, e in un certo senso priva il film di quell’anima che è comune a moltissimi altri, quella delle lettere, delle foto, dei cari a casa, del quando torno… Ma in realtà questa assenza di orizzonte rende il racconto ancora più viscerale: alla fine della corsa, nel compimento della missione non c’è alcuna redenzione finale, solo la muta consapevolezza di aver evitato la morte dei propri compagni, assieme alla promessa di un momento di riposo.

Anche se il soldato si sostanzia nella guerra, i suoi atti non ne modificano in alcun modo la portata drammatica. Sono solo semplici briciole spostate da un piatto all’altro della bilancia, nella prima guerra totale che doveva porre fine a tutte le guerre ed ha rappresentato l’alba dell’industrializzazione del conflitto. Tutto quindi si riduce ad una guerra contro sé stessi, volta a resistere, contro ogni aspettativa, ad un orizzonte bellico che cannibalizza tutto ciò che incontra, speranza compresa.