Non dimenticare chi sei

Bambini giocano nel quartiere di Harlem, a New York.
By Unknown or not provided – U.S. National Archives and Records Administration, Public Domain, Link
di Silvia Lotti
Inutile ripeterlo, tanto ormai è ovvio, le saghe familiari sono i romanzi più coinvolgenti, poiché attraggono e legano alla lettura esattamente come i legami tra le generazioni, spesso fonte più di problemi e drammi (si pensi a Pirandello) che di serenità.
Anche il romanzo d’esordio di Yaa Gyasi, scrittrice di origini ghanesi e cresciuta negli Stati Uniti, si inserisce nel mio baule di amore e odio, dentro cui sono riposti i libri a cui sono più legata: Cent’anni di solitudine, Furore, La casa degli spiriti, Canale Mussolini, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Prima che vi uccidano e molti altri.
Non dimenticare chi sei (Garzanti, 2017), questo il titolo del romanzo, riesce addirittura a tenere insieme tempi e spazi estremamente dilatati ed estesi, poiché copre intrecci familiari che vanno dagli ultimi decenni del ‘700 fino alla fine degli anni ’80, partendo dalle campagne del Ghana e arrivando fino ad Harlem, per poi tornare indietro. Una particolarità del susseguirsi delle generazioni è che segue due rami, che hanno inizio con due sorelle che non sanno di esserlo, le cui vite scorrono in questo modo parallele, attraverso le rispettive discendenze. Alla fine, nel giro di duecento anni, si incontreranno per la prima volta, trovando finalmente la pace nelle loro esistenze, dando inizio a un dialogo tra il fuoco e l’acqua, riportando tutto a casa.
Si comincia quindi da Effia ed Esi, figlie della stessa madre, ma che ignare di esserlo, perché la prima viene abbandonata in una notte in cui il bosco, vicino al villaggio dove vivevano, veniva sconvolto dal fuoco di un incendio. Le loro vite scorrono più o meno simili, fino a che Effia produce una frattura nel corso degli eventi sposando un inglese, comandante del castello di Cape Coast e organizzatore della cattura e partenza di migliaia di schiavi verso le Americhe. Pochi anni dopo, la figlia di Esi, invece, per un caso fortuito, viene catturata e così la sua linea di discendenza sposta le proprie vicende negli Stati Uniti d’America.
Poi, via, si prosegue con figlie e figli, uno alla volta, arrivando a costruire un grande affresco di accenni alla storia degli africani e degli afroamericani: la vita di agricoltori nella Costa d’Oro (ora Ghana), con il rituale alternarsi di abbondanza e siccità; le guerre e gli scontri tra etnie diverse e con gli inglesi; la potenza del popolo Ashanti e il loro commercio ambivalente; la cattura degli schiavi e le loro sofferenze; il lavoro nelle piantagioni di cotone dell’Alabama; la guerra civile americana; la schiavitù e la libertà; le prigioni e le miniere del Sud degli Stati Uniti; la segregazione; i movimenti di difesa dei diritti degli afroamericani; la droga; il lungo e difficile rapporto con i bianchi; il non sapere da dove si viene. Ogni capitolo può essere letto come un racconto a sé, ma, se si segue l’albero genealogico posto all’inizio (facilitando la lettura rispetto a Cent’anni di solitudine, dove lo schema che ogni lettore prova a fare per mettere ordine esce sempre dal foglio), compone un pezzetto di una linea del tempo. Tale successione di eventi è presentata, però, in modo naturale, mai didascalico, quasi non ci sono date. Eventi che si intuiscono quindi, sta al lettore inserirli in un quadro più ampio, ma sono presentati in quel modo accennato che la voglia di approfondire rimane.
Ma alla fine, sì, Marjorie e Marcus, gli ultimi discendenti di Effia ed Esi, insieme per la prima volta, prendendosi per mano, riusciranno a dare forma, parole e sostanza alle loro origini. Il fuoco ha separato le due sorelle, l’acqua dell’oceano Atlantico le ha unite. Il titolo originale, infatti, è Homegoing, tornare a casa.
«La storia racconta storie» fa dire l’autrice a un personaggio e, di nuovo, abbiamo una piccola conferma di quanto storia e narrazione siano profondamente intrecciate e di quanto si sposino bene insieme ai fini di una diffusione e circolazione della prima. Le narrazioni familiari, poi, a maggior ragione. È questo il problema di Marcus, che per il suo dottorato non sa come proseguire la ricerca, perché da argomento di studio, si ritrova imbrigliato nelle vicende della propria famiglia: «In origine aveva voluto focalizzarsi sul sistema di scambio dei carcerati neri che aveva rubato anni alla vita del suo bisnonno H, ma più si addentrava nell’argomento, più diventava un progetto immenso. […] Non ricordava esattamente quando avesse sentito il bisogno di studiare la sua famiglia e conoscerla più intimamente. […] Un conto era fare ricerche su un determinato argomento, un altro avere vissuto la stessa esperienza personalmente. Averla provata sulla propria pelle. Come faceva a spiegarle che lo scopo del suo progetto era catturare l’idea del tempo, dell’essere stato parte di qualcosa che risaliva a un passato lontano, impossibile da misurare, immenso, tanto da rischiare di dimenticarsi che lei, lui e chiunque altro esistevano in esso, non come un elemento distinto, ma integrato? […] Marcus era la somma di quei tempi.»
Infine, questo libro ci ricorda che bisogna sempre cercare di guardare le cose da un altro punto di vista, non accontentandosi di comprendere il passato per come lo raccontano i bianchi, ricordandoci anche una lezione di metodo storico.
«Qual è la storia vera?» […]
«Mr Agyekum, noi non possiamo sapere cos’è successo veramente. […] Non possiamo saperlo perché non c’eravamo.»
«Non siamo portati a credere a colore che i quel momento detengono il potere. Sono loro che mettono la storia nero su bianco. Ecco perché, quando studiate Storia a scuola, dovete sempre chiedervi quale racconto vi state perdendo, quale voce è stata soppressa a discapito dell’altra. Quando l’avrete capito, dovete poi scoprire anche come sono andate diversamente le cose. Solo allora comincerete a avere un quadro più chiaro della situazione, benchè imperfetto.»
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