9/11 Memorial&Museum: quando un’assenza è più efficace di una presenza

di Igor Pizzirusso
L’iconico skyline di Lower Manhattan è in continua evoluzione, dopo gli epocali eventi dell’11 settembre 2001. Vista dalle isole (Staten Island, Liberty Island o Ellis Island) o dalle sponde di Brooklyn e del New Jersey pare investita da un nuovo impulso edificatore che mira a colmare l’enorme squarcio visivo lasciato dal crollo delle Twin Towers. L’alta torre in vetro dell’One World Trade Center svetta oggi tra le gru, in attesa che altri grattacieli simili, ma più bassi, arrivino a farle compagnia nei prossimi anni.

Parrebbe quasi un’imponente opera di riempimento, e quindi di rimozione/cancellazione del passato. D’altro canto, dopo gli attentati non solo WTC1 e WTC2 (le torri gemelle) rimasero distrutte, ma anche gli altri 5 edifici crollarono o furono irrimediabilmente danneggiati, rendendo così necessario un complesso lavoro di riprogettazione e ricostruzione. E tuttavia basta addentrarsi tra le vie e arrivare nel luogo dove meno di vent’anni fa si ergeva tutto il complesso per accorgersi che è esattamente l’opposto.

Il Memoriale

Lì, nell’esatto luogo in cui le radici delle Twin Towers affondavano nel cemento, adesso si aprono due voragini quadrate. Una sorta di contrappasso, di mondo capovolto, di “sottosopra”.

Il 9/11 Memorial in fondo è questo: un ripensamento completo dello spazio, carico di molteplici significati simbolici ed emotivi. Reflecting Absence, lo chiamano; e il nome pare davvero perfetto.

Le basi delle due torri sono ora due vasche di granito scuro. Sul bordo di ciascuna corrono dei pannelli in bronzo che riportano incisi i nomi delle vittime o in rilievo quelli delle squadre dei pompieri o della polizia periti durante le operazioni di soccorso. Sotto a queste lastre leggermente oblique, scorre acqua: prima in un piccolo catino, poi giù nelle migliaia di rivoli di una cascata, quindi di nuovo tutta insieme in un’altra grande vasca, prima di sprofondare infine in una sorta di buco nero, esattamente al centro.

Per chi ha negli occhi e nella mente le immagini dell’11 settembre, l’impatto emozionale è indubbiamente forte. Gocce e rivoli simulano la caduta di molti quel fatidico giorno. Molti che in principio erano insieme, radunati in una partenza collettiva, ma che poi si dividono nei singoli percorsi individuali, salvo poi ritrovarsi nuovamente tutti insieme dopo il balzo, prima di precipitare verso l’ignoto. In effetti è proprio questo epilogo che colpisce maggiormente: l’esito finale è un precipizio tetro, scuro, di cui non è possibile scorgere il fondo, da qualsiasi angolazione lo si guardi. E non è naturalmente un caso che anche sulla terrazza del museo, situato proprio in mezzo alle due voragini, vi siano degli alberi a ostruire la visuale.

In tutto questo contesto, la nuova torre diventa quasi un orpello, mentre il suono costante dell’acqua diventa sovrastante, assordante.

Non siamo dinanzi a un inno all’ottimismo e alla ripresa, come ci si aspetterebbe da un prodotto born in the USA, bensì a un memento tragico, che non cerca né vuole restituire chiavi di lettura al di fuori di quelle di una tragedia che non ha spiegazione né ragione, e dalla quale non si recupera. Per certi versi, e con le dovute proporzioni, si ritrova qui un’atmosfera simile al Memoriale della Shoah di Berlino. Con alcune differenze sostanziali che meritano un accenno e – magari in altra sede – un approfondimento.

Innanzitutto, il 9/11 Memorial è costruito nel luogo esatto dell’evento, mentre per il Memoriale della Shoah siamo dinanzi a un luogo simbolico, ovvero la capitale tedesca che è stata il centro nevralgico, ideologico e amministrativo della persecuzione ebraica; eppure, in quest’ottica, è forse più significativa Norimberga di Berlino. E d’altro canto, è più complicato individuare un luogo univoco quando si cerca di render conto di violenze diffuse in un territorio vasto come l’intera Europa. Il legame fisico con il territorio è quindi paradossalmente meno forte, viscerale, diretto.

La seconda considerazione è numerica. Il Memoriale della Shoah racconta e ricorda una tragedia che ha provocato 6 milioni di vittime; l’11 settembre 2001 ne morirono invece circa 3 mila (2996). Proporzionalmente non c’è paragone, eppure la copertura mediatica e in diretta dell’attentato alle Twin Towers ne hanno fatto un evento di portata globale (e che ha avuto effettivamente poi ricadute globali).

Il Museo

Esattamente al centro, tra i due basamenti delle torri, è situato l’ingresso del 9/11 Museum, che si sviluppa per la maggior parte sottoterra, proprio laddove c’erano le fondamenta dei due edifici gemelli. Poco dopo l’entrata, mentre si scende la prima scala, campeggiano le due iconiche ultime travi rimaste in piedi dopo il crollo delle torri.

Più in basso troviamo una delle poche scale che conducevano nei sotterranei rimaste tutto sommato integre, un pannello informativo quasi intatto, un pezzo dell’antenna della torre 1, un camion dei pompieri semidistrutto, altre travi attorcigliate, contorte o spezzate (tra le quali anche la famosa “Ground Zero cross”[1])… È un’esposizione di sicuro impatto visivo, che attira l’attenzione probabilmente dei più giovani, ma molto legata a un’idea di concretezza invece che di rielaborazione.

Prima di giungere qui però, la visita inizia poco dopo le due travi con una foto di Lower Manhattan alle 8 del mattino dell’11 settembre: una specie di cristallo in cui il tempo si è fermato, l’ultimo momento prima che il mondo che gli Americani conoscevano (e non solo loro) mutasse per sempre. Per citare un famoso film, è “il respiro profondo prima del balzo”. La sensazione, per chi conosce cosa è avvenuto e lo ha vissuto in prima persona, è esattamente quella del fiato che si trattiene, del petto che si gonfia pieno d’aria tanto da cominciare a far male. Di fronte, un grande pannello descrive la dinamica degli attentati, a partire dai dirottamenti degli aerei, ricostruendone anche il percorso.

Subito dopo, lo spazio è riservato ai testimoni. In un’area buia, alcuni pannelli digitali neri hanno disegnato su di loro un mappamondo, con i continenti formati da bianche frasi o parole. L’aria è satura delle voci delle testimonianze di chi ricorda cosa accadde quel giorno dal proprio punto di vista. Uno degli aggettivi più ricorrenti è “surreale”.

Lo stesso senso di surrealtà che traspare dal racconto di quel giorno che ho personalmente sentito fare a Carlo Greppi, il quale ricorda sempre le parole di suo fratello minore davanti alla TV: “Mamma, trasmettono lo stesso film su tutti i canali”.

Avanzando, ci si accorge poi che i pannelli non sono affiancati, ma a distanza e profondità diversi. Mentre ci si muove in mezzo si ha quindi modo di soffermarsi, rielaborare, riflettere. Nel passaggio successivo, la memoria non è più uditiva ma visuale: altri pannelli fanno scorrere in successione rapida e continua le immagini di chi ha assistito quel giorno all’attentato e al crollo. In tutto questo, le torri non si vedono mai. Ogni cosa qui riguarda il contorno, il contesto, il riverbero.

Subito dopo si affronta l’ultima discesa, che porta nelle vecchie fondamenta delle torri, con il percorso espositivo che si snoda intorno a due blocchi monolitici centrali. Quel che ha maggiore impatto è proprio “vedere” ciò che manca: travi e basamenti troncati, cemento grigio, freddo e vuoto. L’assenza, una volta di più, fa più effetto della presenza.

Anche perché la presenza a volte rischia di essere fuori luogo, come nel caso della frase di Virgilio estrapolata dal Libro IX dell’Eneide e scritta con i resti dell’acciaio delle torri laddove riposano i resti delle vittime non ancora identificate: “No day shall erase you from the memory of time“.[2]

All’interno dei monoliti vi sono alcune aree tematiche. Nella porzione di torre sud (o torre 2) accessibile, ci sono la parte In memoriam e la parte Rebirth at Ground Zero. In memoriam (dove non è possibile fare foto) presenta tutti i volti delle vittime identificate sulle quattro pareti della sala quadrata; sei tavoli interattivi permettono di cercare ad nomen, mentre alcune teche espongono degli oggetti appartenuti ai deceduti. Al centro, uno spazio immersivo fa scorrere sulle pareti buie nomi, foto e biografia di una vittima per volta. Con Rebirth at Ground Zero siamo invece in pieno ottimismo born in the USA: è una proiezione su più schermi, con riprese time-lapse e interviste registrate, che ha per oggetto la ricostruzione post crollo, sia dell’One World Trade Center che del 9/11 Memorial.

Nella torre nord invece c’è un piccolo spazio molto interessante dedicato allo Sharing memories. Due cabine allestite come ministudi televisivi completamente automatizzati permettono a ogni visitatore di lasciare un videomessaggio. Alcune di queste “memorie” già archiviate sono proiettate su un telo sempre in questa stessa area e fra esse, purtroppo, figurano anche quelle di Colin Powell e Donald H. Rumsfeld, rispettivamente Segretario di Stato (per un solo mandato) e Segretario alla difesa di George W. Bush. Si scivola dunque facilmente nella propaganda un po’ stucchevole e ottimista, secondo cui la cosiddetta “guerra al terrore” ha mostrato tutta la sua efficacia nel rendere il mondo più sicuro (quando gli attentati a Parigi e in Europa di qualche anno fanno pensare che sia avvenuto esattamente l’opposto).

A questo punto la riflessione che potrebbe nascere è: c’è il “prima” e c’è il “dopo”, ma manca completamente il “durante”. In effetti non ci sono immagini dello schianto degli aerei o del crollo delle Twin Towers in tutto il museo, perché ognuna di esse è concentrata nella sezione intitolata semplicemente “September 11, 2001” (sottotitolo “Historical exhibition”), che occupa quasi totalmente lo spazio della torre nord. Qui la ricostruzione è minuziosa, a partire dal primo impatto delle 8e46 per arrivare al collasso dei due palazzi (rispettivamente 9e59 la WTC2 e 10e28 la WTC1).  Il risultato è forse eccessivamente didascalico, cronologico, scandito dalle foto e dai video di repertorio dei telegiornali o amatoriali. Chi ha vissuto quei momenti in presa diretta, già li conosce. I più giovani probabilmente li avranno recuperati sul web (a meno che non abbiamo visto qualche trasmissione dedicata), ma qui possono fruirli in maniera sistematica, ordinata, consequenziale e non erratica. L’impatto è comunque forte e incisivo, anche perché non si tace nulla, nemmeno la vicenda e le immagini di chi si è gettato dall’alto delle torri assediate dal fuoco.

Proseguendo, viene ricostruita anche la vicenda del Pentagono, che precede una nuova ripetizione di oggetti. È a questo punto che l’esperienza si sfilaccia e diventa ridondante, prima di sfociare nell’ultima parte dedicata ad Al Qaeda, assimilabile al novero delle “narrazioni fantasiose” o “strumentali”.

All’uscita, dopo circa tre ore di visita (a voler vedere per bene tutto), si ha l’impressione di un viaggio che utilizza sapientemente sia la sfera emotiva che quella cognitiva, ma fatica un po’ a miscelarle e quindi a rendere concretamente efficace la trasmissione del sapere. Perché in fondo, ragionando in termini di public history, è questo il punto focale, il vero quesito: trasmettere nozioni coinvolgendo il pubblico. Un quesito reso ancora più complesso dal fatto che l’argomento sia così recente. Per molti di noi l’11 settembre 2001 pertiene al vissuto e non si è ancora “fatto storia”; non è stato cioè sufficientemente “masticato” e rielaborato nemmeno dagli storici o dai docenti. Eppure sono trascorsi quasi vent’anni da quel tragico evento: tutti i giovani in età scolare non solo non lo ricordano, ma nemmeno erano nati e sicuramenre non sono abituati a vedere il mondo con una scala di valori diversa da quella post-9/11 (la stessa cosa accade con un decennio di anticipo riguardo alla contrapposizione USA-URSS). Lo si capisce fermandosi un po’ ad ascoltare i dialoghi all’interno delle famiglie (di cui molte anche italiane) che visitano il museo. Pare vi sia un’impossibilità a comprendere la portata storica – oltre che drammatica – dell’evento, le sue dinamiche, le sue implicazioni soprattutto (e paradossalmente, visto le presunte superiori capacità cognitive rispetto ai bambini) negli adolescenti. D’altra parte il mondo che è nato dall’11 settembre è l’unico che loro conoscono. Non solo: anche determinati aspetti di quella giornata pare siano per loro imperscrutabili, mentre noi li diamo per scontati, avendoli visti real time, miscelati con emozioni, sentimenti e ricordi, quando invece per loro sono sono immagini riprodotte in un Museo o nei filmati su Youtube.

La didattica sta affrontando il problema del “tempo presente” ormai da un trentennio e non senza difficoltà: qual è il modo più efficace di insegnare o trasmettere l’attualità che si è fatta contemporaneità? Se cercate una risposta, forse il 9/11 Museum non è la soluzione migliore per ottenerla, perché sembra più un museo finalizzato al processo mitopoietico americano o comunque un luogo dedicato a un pubblico già consapevole. Al suo interno c’è tuttavia un Education center, che funziona solo su prenotazione[3]: chissà che qui non avvenga qualche sorta di miracolo…