Il mondo Brera: specchio dei secoli e della sapienza umana
di Chiara Lusuardi e Giorgio Uberti
Pi-na-co-te-ca-di-Bre-ra: un nome altisonante, che a molti ex-studenti, specialmente milanesi, ricorda una tappa obbligatoria del proprio percorso scolastico, uno di quei musei che “non si può non vedere”. Eppure, Brera non è mai la stessa, perché in continuo aggiornamento, e una visita, qui, ci mostra molto più di questo! Vi presentiamo il primo #PlaceToBePop dell’estate 2020.
AL CENTRO DEL POTERE RELIGIOSO
Siamo nel 1776 quando Maria Teresa d’Austria, che tra i suoi titoli vanta anche quello di duchessa di Milano, ha una visione lungimirante: creare, nel cuore della città, un istituto scientifico-culturale di larga fama, che desse le desse non solo il riconoscimento di centro politico, ma anche universitario (detenuto fin dal medioevo dalla vicina Pavia), e attirasse studiosi e giovani nobili da ogni parte d’Italia. Ma andiamo con ordine.
Brera è un toponimo che deriva dalla parola germanica braida il cui significato è quello di campo, o prato incolto, posto in prossimità di un abitato. Infatti, fino alla costruzione del sistema difensivo medievale (correva l’anno 1156) questa parte della città era collocata all’esterno delle mura romane. Qui si trovavano i terreni che furono controllati e difesi dalla potente famiglia dei Da Baggio (non è un caso che fino alla fine del XII secolo questo era indicato come il borgo nella brera del Guercio de Badagio).
L’atto di acquisto di questo prato da parte di una nuova congregazione di religiosi, avviene nel 1198 e il palazzo di Brera nasce dunque nel XIII secolo come convento degli Umiliati, ordine religioso medievale di lanaiuoli. Dopo la loro soppressione, nel 1571, è assegnato alla Compagnia di Gesù, i Gesuiti, da Carlo Borromeo, divenendo un fulcro per lo studio delle scienze e delle arti.
Sono loro a occuparsi della costruzione di un edificio più ampio e più adatto ai tempi. Ma come spesso succede quando si tratta di costruzioni monumentali, l’opera viene avviata, interrotta e ripresa più volte e affidata ad architetti sempre diversi. Passano i secoli e anche i Gesuiti vengono soppressi nel 1773. Così l’edificio ancora incompiuto, con i suoi chiostri, le sue sale, la sua chiesa, viene acquisito dal governo austriaco (e quindi alla nostra Maria Teresa) con il progetto di farne un “Reale Palazzo”. Per prima cosa, il suo completamento è affidato all’architetto umbro Giuseppe Piermarini (quello del Teatro alla Scala, della villa Reale di Monza ma anche dell’Accademia nazionale virgiliana di Mantova). In secondo luogo, in continuità con le realtà culturali già avviate dai gesuiti diventa sede di una serie di scuole e istituti di studio.
LA NUOVA DIDATTICA TERESIANA
Qui sono trasferite le Scuole Palatine (un articolato sistema d’istruzione, già esistente nel Broletto della Milano dei Visconti e destinato ai funzionari pubblici), a cui si aggiungono nuove materie che porteranno alla nascita dell’Accademia di Belle Arti e della biblioteca. Viene progettato l’orto botanico, che raccoglie ancora oggi circa 300 specie diverse di piante, suddivise secondo la classificazione illuminista (piante medicinali, da tintura, di ogni provenienza geografica e piante da orto). Si rinnova l’osservatorio astronomico (i gesuiti sono i primi a eseguire qui osservazioni scientifiche nel 1760) da cui lo scienziato Giovanni Virginio Schiaparelli, nel 1877, avvisterà i cosiddetti “canali di Marte”. Infine, all’acquisizione di tutta la raccolta libraria della Compagna di Gesù, si aggiunge la Regia Imperialis Biblioteca Mediolanensis, oggi Biblioteca Nazionale Braidense.
La solennità del palazzo tardo barocco si percepisce a ogni passo, sovrastati dalle alte e imponenti statue di scienziati e studiosi milanesi che popolano il cortile d’onore interno. Bonaventura Cavalieri, Tommaso Grassi e Pietro Verri ci interrogano in un rapporto impari – loro dall’alto, noi dal basso – o pretendono da noi un inchino alla conoscenza e allo studio. E al centro del chiostro, centro da cui si irradia tutto, la grande statua bronzea di Napoleone come Marte pacificatore, che custodisce nella mano destra la Vittoria alata (forgiato, niente meno, con il bronzo dei cannoni pontifici di Castel Sant’Angelo di Roma).
NAPOLEONE E IL LOUVRE D’ITALIA
E proprio l’arrivo in Italia del Bonaparte cambia, ancora una volta, il destino di Brera e della sua Pinacoteca. Se nel trentennio precedente questo istituto aveva raccolto opere prevalentemente secondo il modello della didattica teresiana, dedicate alla formazione degli studenti dell’Accademia, dal 1809 questa assume le vesti di un vero e proprio museo basato su quel grandeur artistico che Vivant Denon sta inventando a Parigi.
Qui sono esposti i dipinti più significativi portati dalle armate francesi a seguito della soppressione di numerose chiese e monasteri e della requisizione dei loro beni. Certo, le opere migliori, secondo il gusto dell’epoca, vengono trasferite nel vero centro del potere napoleonico: al Louvre. Altre finiscono nella sua “sede succursale”, a Milano, capitale del nuovo Regno d’Italia (quello guidato da Eugène de Beauharnais, figliastro di Napoleone), proprio alla Pinacoteca. Ecco perché la maggior parte dei dipinti esposti, spesso di grandi dimensioni, afferisce ai temi del sacro e della vita di Cristo.
La visita alla Pinacoteca offre un allestimento recentemente aggiornato da James Bradburne, manager della cultura canadese naturalizzato britannico, per stare al passo con i grandi istituti museali europei.
A causa delle misure di contenimento dell’epidemia di Covid-19, tutt’ora in corso, segue un percorso obbligato di un’ora e mezza, che permette una maggiore fluidità di pubblico e la facilità di accesso alle sale rispettando sempre il numero massimo di persone in ognuna. Questo, purtroppo, a sacrificio di alcuni ambienti più piccoli, ora chiusi ai visitatori.
Percorrere i corridoi e attraversare gli androni significa compiere un viaggio nella storia e nella geografia dell’arte italiana, che parte dai modelli bizantini con forme bidimensionali, senza profondità, a volte più stilizzate, per giungere a sapienti giochi di luci e ombre, cura della prospettiva e intensità dei gesti e dei volti, meno intrisi di valenze simboliche e più espressivi nelle loro emozioni.
I GRANDI DEL RINASCIMENTO
Siamo dunque accolti dagli affreschi provenienti dall’Oratorio di Mocchirolo, di scuola giottesca, per passare alla pittura veneta del XV e del XVI secolo, in cui spiccano le opere di Andrea Mantegna (e il suo audace Cristo morto) e di Giovanni Bellini, o Giambellino, autore della Pietà di Brera. In questo dipinto a tempera, della seconda metà del Quattrocento, possiamo già intuire le grandi novità che avrebbero investito il mondo della pittura: un Cristo emaciato e sofferente, ormai privo di vita, è sorretto da una Madonna sconsolata e da Giovanni addolorato. Altro grande protagonista della pittura sacra veneta è San Girolamo, rappresentato nelle diverse fasi della sua vita, ma sempre accompagnato dalla Bibbia, dal galero rosso e dal leone.
Del tutto diverse sono invece le emozioni scaturite dalla serie di dipinti a olio del lombardo Vincenzo Campi provenienti dal convento di San Sigismondo di Cremona. La Fruttivendola, la Pollivendola, la Pescivendola e la Cucina non hanno alcun tema sacro, tutt’altro: nature morte dal forte realismo popolare che lascia ben poco all’immaginazione mostrano animali eviscerati e ceste ricolme di prodotti della terra. A completare queste “bancarelle dipinte”, i personaggi dai volti storpiati in risate amare sono quasi grotteschi, rispetto alla grazia e alla sacralità che si percepisce nelle opere intorno.
Nel cuore della Pinacoteca, sono però gli artisti del Rinascimento urbinate a conquistare letteralmente gli occhi e l’anima di chi vi entra. In un unico ambiente a destra, la Pala Montefeltro di Piero della Francesca, ricca di simbologia e con un raffinato uso delle luci e della prospettiva, racchiude in sé la devozione religiosa di Federico da Montefeltro e la potenza politica del condottiero. Al centro, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio unisce alla perfezione architettonica del tempio – vero centro prospettico dell’intera scena – la teatralità e il dinamismo delle figure che partecipano alle nozze (i loro busti non più frontali e i loro corpi non più statuari ma impegnati in diverse gestualità) in un’armonia di proporzioni geometriche di rara bellezza. Infine, a sinistra, l’occhio si posa, inevitabilmente e magneticamente, sul Cristo alla colonna del Bramante: il supplizio di Cristo viene espresso attraverso il suo sguardo vitreo e supplichevole, il corpo scolpito stretto dalle corde e le lacrime trasparenti. Dietro al corpo rappresentato secondo i canoni classici, spicca una pisside dorata, il simbolo dell’eucarestia, quasi a voler anticipare il sacrificio di Cristo e la consapevolezza del dolore che prova, ora flagellato e poi sulla croce.
UNA RIVOLUZIONE CHIAMATA CARAVAGGIO
Il pathos aumenta esponenzialmente quando si giunge davanti alla Cena in Emmaus di Caravaggio: su uno sfondo completamente nero, emerge la figura di Cristo risorto che appare ai commensali pensierosi. L’opera, risalente al 1606 e proveniente da una collezione privata, è molto diversa da quella che lo stesso Merisi aveva composto cinque anni prima (e ora esposta alla National Gallery di Londra): la semplicità della tavola, i segni sui volti affaticati e dubbiosi dei personaggi e l’essenzialità cromatica di questa seconda versione esplicano la profonda drammaticità che in quegli stessi anni tormentava la vita privata dell’artista.
Ma, oltrepassata la sala dei Seicento e dei caravaggisti e lanciata una rapida occhiata in lontananza alle vedute paesaggistiche del Canaletto, il passo procede spedito verso la pittura italiana dell’Ottocento e i celebri quadri di Francesco Hayez, in cui l’espressività dei volti e dei gesti raggiunge il suo apice, tanto che gli stessi temi dei dipinti si succedono da quelli più concreti (il Ritratto di Alessandro Manzoni, l’Odalisca, l’Autoritratto) a quelli più astratti (La derelitta, Malinconia) a quelli in cui episodi relativi alla politica veneta si intersecano con momenti di vita amorosa o familiare, generando complesse scene teatrali sviluppate su differenti livelli di lettura (Il bacio, Il doge Francesco Foscari destituito). Dialogano con queste ultime i dipinti del macchiaiolo Giovanni Fattori, più improntate su temi di vita agreste e battaglie campali, segno di un’Italia combattuta che a fatica conquista una sua unità e che ritorna agli elementi fondanti del lavoro, della politica e della vita quotidiana.
BRERA È SEMPRE QUELLA PERCHÉ NON È MAI LA STESSA
Poiché il percorso si conclude qui, parrebbe che il Novecento sia il grande assente da questo viaggio. Quest’affermazione è vera solo in parte: sebbene la proposta espositiva della Pinacoteca abbia dovuto escludere l’accesso ad alcune sale per rispettare le norme di distanziamento sociale e questo breve resoconto si basi su una selezione del tutto personale e soggetta ai gusti e agli interessi di chi scrive, del Novecento artistico italiano è possibile assaporare soltanto alcuni assaggi del tutto estemporanei. La motivazione di questo risiede però nel tentativo di valorizzare a dovere la collezione esponendola nel vicino Palazzo Citterio. È tuttavia possibile avere un’anteprima dei Boccioni, dei Severini, dei Carrà, dei Morandi conservati in Pinacoteca grazie a teche mobili allestite al centro di alcune sale.
Anche questo fa parte della scoperta, che si rinnova ogni volta, della storia e dell’arte del nostro Paese, regalandoci, attraverso molteplici spunti, le coordinate per conoscerlo e interpretarlo. Così il nostro viaggio, seppur esplorativo e avventuroso, va a cercare spontaneamente ma con occhi nuovi quei riferimenti che abbiamo imparato forse controvoglia sui banchi di scuola o nelle noiose gite didattiche annualmente proposte dai nostri istituti.
Impariamo a camminare, ogni volta da capo, attraverso queste sale e questi corridoi. Qui dove secoli fa hanno studiato personalità quali Giuseppe Parini, Barnaba Oriani, Andrea Appiani e Giovanni Schiapparelli. Qui dove in tempi più recenti si sono formati Marino Marini, Dario Fo, Vanessa Beecroft e Carlo Carrà. E non è nemmeno necessario essere iscritti, Brera dall’alto dei suoi otto secoli, ha sempre qualcosa da insegnarci! È riuscita infatti a evolversi con i tempi e con i cambiamenti sociali, a rinnovarsi e a offrire contenuti e spunti di interesse sempre differenti. Ne è un esempio il ricco sito web (www.pinacotecabrera.org), che propone alcune immagini delle collezioni più importanti corredate da puntuali didascalie, progetti didattici per i più giovani, le famiglie e i gruppi scolastici e numerosi articoli di approfondimento. Difficile dunque resistere al fascino di un luogo così prestigioso e radicato nella storia, ma allo stesso tempo in grado di dialogare con consapevolezza con il proprio presente!