First Man

di Matteo Di Legge ed Eleonora Moronti
“First Man”
(USA, 2018, regia di Damien Chazelle)
“We choose to go to the moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard”
John Fitzgerald Kennedy, 12 settembre 1962
Matteo Di Legge: “Se si potessero racchiudere in una singola frase le emozioni provate vedendo l’ultimo film di Damien Chazelle dedicato alla conquista della luna e alle vicende personali e pubbliche di Neil Armstrong, tratto dall’omonimo libro First Man: the life of Neil Armstrong di James R.Hansen, si sceglierebbe sicuramente la frase, contenuta anche nel film (dopotutto non poteva essere altrimenti) pronunciata dal presidente Kennedy nel Rice Stadium di Houston, in Texas, durante quello che passerà alla storia come il “moon speech”, la prima dichiarazione ufficiale che indicava il nostro satellite come meta finale del programma spaziale americano, drammaticamente arretrato rispetto a quello russo. La sceglieremmo perché ciò che traspare maggiormente dal film è proprio questo messaggio: andare sulla luna è dannatamente complicato, difficile, estremo. E chi sceglie quella strada si ritroverà molto probabilmente solo. First Man è un film a tratti nauseante. Non perché sia brutto, anzi, tutt’altro, l’ho apprezzato grandemente, ma intendo veramente nauseante. Lo scopo di Chazelle è evidente: far capire bene che cosa significa essere un pioniere dello spazio negli anni ’60, quando tutta la tecnologia che ti spinge è oltre lo sperimentale. Le scene di volo e di addestramento sono girate in modo stretto, angusto, quasi violento, con camere a mano traballanti che si insinuano in carlinghe e capsule minuscole irte di cavi e manopole, bottoni e luci.
Il suono è terribile, nella sua spietata brillantezza, e restituisce ogni cigolio, rombo, tambureggiare di lamiera, mentre scarseggiano le panoramiche ampie, preferite a piccoli ritagli di cielo visto attraverso oblò triangolari, spessi ed appannati. I volti degli astronauti, tirati e pallidi dietro alle visiere dei caschi, fanno comprendere che tutto ciò è assolutamente estremo e viscerale. Non si ha paura di esagerare nel dire che è probabilmente uno dei film di ambientazione spaziale più riusciti di sempre, perché riesce a condurre lo spettatore quasi a bordo, a chiedersi “ma chi me lo ha fatto fare?”. Viene automatico il paragone con Apollo 13, di Ron Howard, del 1995, ma mentre Howard predilige uno stile più tradizionale ed “eroico”, First Man è un film teso, cupo e triste, spogliato di quasi tutto l’eroismo a favore di un racconto cristallino di pionierismo e follia, accompagnato dal registro parallelo del dramma famigliare di Armstrong: la perdita della giovane figlia e il rapporto teso con una moglie indurita dal lutto e preoccupata di perdere anche il marito in un certo senso preparano l’uomo ad essere il primo uomo, spingendolo in quella solitudine forse necessaria per un esploratore che mette piede in un nuovo regno, il più vasto che si possa immaginare. La scena dell’allunaggio, climax naturale dell’intero film, è più una danza che una scena spaziale: un valzer ballato al cardiopalma tra una piccola capsula di alluminio ed una grigia superficie rugosa, accompagnato dal tema musicale più riconoscibile ed anche più riuscito dell’intera pellicola. Una volta a terra l’audio diventa prima muto, a ricordarci della vuota sordità dello spazio, e poi passa sui veri dialoghi originali dello sbarco, curiosa e coraggiosa scelta quasi documentaristica. Armstrong si guarda intorno, poggia lo scarpone a terra e, come si dice in questi casi, il resto è storia. Non sappiamo se il finale sia vero o frutto di fantasia, ma si è portati a pensare che lo sia: dopo tutta questa cavalcata così rude ed emotiva, non ce lo vediamo Chazelle inserire una scena così artefatta, se inventata. È bello credere che lassù, su quella fine sabbia grigia, con addosso gli occhi e i pensieri di milioni di persone, Neil Armstrong si sia sentito per un attimo meno solo.”
Eleonora Moronti: “Con First Man Damien Chazelle si lascia alle spalle la magia fiabesca di La La Land (2016) e abbraccia una rappresentazione dello spazio che sembra dimenticare del tutto il romanticismo della combo stelle + grandi imprese. Nel film ritroviamo il senso di abbandono sperimentato in Gravity di Alfonso Cuarón (2013) ma anche l’implicita speranza appesa al nulla che pervadeva Interstellar di Christopher Nolan (2014). La corsa verso la luna di Chazelle è un percorso accidentato, compresso in una pellicola dalla grana pesante, che a tratti ricorda i filmini amatoriali degli anni ’60, perfetta per costringere lo spettatore a misurarsi con l’idea di un’impresa titanica, sostenuta da una tecnologia che oggi ci appari quasi traballante, pesante, malconcia.
Lungi dall’essere i brillanti avventurieri della narrazione mainstream, gli astronauti di Chazelle sono come veterani di guerra, quasi dei disadattati, incapsulati dentro ferraglie poco rassicuranti e dentro famiglie costrette a misurarsi con la loro assenza. Tutta la loro vita sembra essere scandita da pulsanti, calcoli, cavi e variabili imprevedibili che accompagnano gli eventi, alcuni stregati, del programma Apollo. Ma è non solo questo. Fuori dal sogno di afferrare la luna c’è la realtà: c’è il ’68 con i suoi sussulti sociali, c’è la real politik del congresso statunitense, c’è il costo della propaganda e c’è la pressione della guerra fredda. C’è la tensione della discriminazione razzale, che è tutta dentro la poesia, poi brano musicale del 1969 Whitey is on the moon, reinterpretato da Leon Bridges, che in una perfetta sintesi, cruda e brutale, dice: “Io non riesco a pagare le spese mediche e l’uomo bianco va sulla luna.”
Ma tutto questo resta distante dalla prospettiva di Armstrong, qui con il volto di Ryan Gosling, una volta di più a suo agio in ruoli algidi e spigolosi. La realtà resta fuori, come la luna in fase crescente, terra promessa e miraggio, che incombe in ogni inquadratura e sembra chiedere continuamente: ne vale la pena? L’obiettivo dell’uomo solo con sé stesso è un motore sufficiente a piegare e dirigere la storia? Il sacrificio dell’individuo, che è quanto la storia chiede, è un prezzo giusto da pagare? Non ci sono risposte definitive in First Man e forse è meglio così. Qualcuno ricorderà, vedendo il film, che nel 1969 la BBC scelse di affidare il racconto delle immagini dell’allunaggio ai Pink Floyd che per l’occasione suonarono live l’inedito Moonhead. Qualche anno dopo uscirà l’amatissimo The Dark Side of the Moon e in uno dei pezzi più noti, Brain Damage, si sente una voce dire: “In realtà non c’è nessun lato oscuro della luna. Di fatto è tutta scura […]”. Un po’ come il futuro degli uomini, in cui non c’è nulla di scritto ma per cui, come per la luna, forse vale la pena considerare di rischiare.”