Gotti – Il primo padrino

#popreview, film

di Igor Pizzirusso

“Gotti”
(2018, regia di Kevin Connolly)

John Travolta veste i panni di John Gotti, in un film uscito nelle sale cinematografiche italiane il 13 settembre scorso, con il sottotitolo “Il primo padrino”. Una postilla forse necessaria alle nostre latitudini, dove il gangster che fu a capo dal 1985 al 2002 di una delle più potenti e celebri famiglie di Cosa Nostra americana (i Gambino) è poco conosciuta, benché siano ispirate a essa svariate figure apparse nelle più note produzioni di argomento o ambientazione mafiosa (“Il Padrino – parte III” e “I Soprano”, solo per citarne un paio).

Gotti è dunque un biopic con ambizioni da colossal, ma dalla travagliata realizzazione, che ha visto alternarsi alla regia cineasti del calibro di Barry Levinson, Nick Cassavetes e Joe Johnston, prima di approdare definitivamente tra le giovani mani di Kevin Connolly.

E chissà che proprio questo percorso complesso e accidentato non sia la causa di un esito finale così rivedibile tecnicamente e storicamente discutibile. Perché va detto: malgrado la buona volontà e la discreta prova di Travolta, Gotti è un film con una sceneggiatura disordinata, un montaggio sincopato e dialoghi più scontati di un’offerta da Discount. E dire che non sono nemmeno i difetti peggiori…

Prendiamo fiato ed esemplifichiamo con ordine.

John Travolta, dicevamo: bravo, anche se forse un po’ ingessato (età e chili ci sono tutti); eppure la sua immedesimazione risulta poco efficace non tanto perché il personaggio da lui costruito possiede ben pochi dei tratti istrionici per i quali il vero John Gotti era noto ai media. Da questo punto di vista la scelta può essere perfettamente condivisibile, trattandosi di un film che vuole privilegiare il lato privato del protagonista, piuttosto che quello pubblico. La mimesi mal riesce invece da un punto di vista innanzitutto fisico, per colpa di un trucco fin troppo marcato ed evidente (e dire che con la Computer graphic oggi si fanno meraviglie).

Fin qui tutto male, insomma; e ora arrivano le dolenti note, alle quali però è necessario apporre una premessa fondamentale: i diritti per raccontare la vicenda sono stati comprati dal figlio di John Gotti, con conseguenze prevedibili. Ecco perciò che il ritratto di Cosa nostra sembra più uscito da un libro di Mario Puzo o da un film di Coppola (che però sono ambientati quarant’anni prima) e la famiglia Gambino è presentata come una congrega di (quasi tutti) “bravi ragazzi”, ancora permeata di valori etici e morali tanto romantici quanto anacronistici. Lo stesso John Gotti somiglia a un Vito Corleone “post litteram”, fuori tempo e fuori contesto negli anni in cui il film è per la maggior parte ambientato (gli anni ’80 e ’90). E infatti, verso metà film, pare proprio che sia Marlon Brando – e non John Travolta – a pronunciare un’emblematica frase sul rifiuto allo spaccio di stupefacenti.

A rafforzare questo senso idealizzante e celebrativo, oltre al contorno dell’incontro nel carcere tra Gotti padre e Gotti figlio, ci sono le numerose interviste di repertorio inserite nella parte finale del film e prima dei titoli di coda: spezzoni scelti con cura, in cui le persone comuni interpellate si profondono in lodi e solidarietà il “padrino” e la sua famiglia, senza il minimo contraddittorio. Una selezione delle fonti quindi smaccatamente di parte, giustamente molto criticata dalla stampa americana.

Tutto da buttare quindi? No, non tutto. La prestazione attoriale di Travolta è valida, ma il senso di occasione persa (o incompiuta) rimane fortissimo. Perché al netto delle complessità dell’individuo John Gotti – e rifuggendo ogni banalizzazione che divida il mondo e la storia in due sfere distinte di bene e male – il risultato è un’opera che poco restituisce della dimensione effettivamente “popolare” di un personaggio storico molto amato dai suoi contemporanei, preferendo indugiare invece nel più univoco dei giudizi postumi, che fa declinare ben presto il film verso il mero prodotto agiografico.