di Iara Meloni

“Hunters”
(2010-2023, due stagioni)

Maryland 1977, tipica grigliata americana a bordo piscina, nella lussuosa abitazione di Biff Simpson, sottosegretario di Stato dell’amministrazione Carter. Improvvisamente, un’invitata inizia a impallidire e gridare, poi alza il dito contro il padrone di casa e lo accusa di essere ‘il macellaio di Arlav’, immaginario campo di concentramento nazista. Dopo alcune esitazioni, Simpson estrae la pistola, uccide tutti gli invitati (compresi moglie e figli), e in tedesco esclama: “Siamo qui. Siamo ovunque. Heil Mein Führer”.

Con questa scena violenta e incisiva si apre Hunters, serie tv scritta e diretta da David Weil, disponibile in due stagioni (2020, 2023) su Prime. Da subito veniamo catapultati in una realtà violenta ‒ sottolineata da una regia dai toni pulp che attinge generosamente ai film d’exploitation degli anni Settanta ‒ dove i nazisti sono in mezzo a noi, e vivono negli States sotto nuovi nomi e nuove identità. A dare loro la caccia sono gli Hunters, gruppo eterogeneo e pittoresco guidato dal sopravvissuto Meyer Offerman, interpretato magistralmente da Al Pacino. È lui che ha reclutato una squadra di promettenti cacciatori di nazisti, ognuno con un’abilità utile per la missione. C’è sorella Harriet, insospettabile suora/agente dell’MI6, che nasconde un passato da bambina ebrea messa in salvo in un convento; Roxy Jones, mamma single e militante delle Black Panthers; Lonny Flash, attore di b-movie e mago dei travestimenti; Joe Mizushima, reduce del Vietnam ed esperto di arti marziali; gli informatici Mindy e Murray Markovitz, marito e moglie scampati dai lager. A completare il gruppo è il giovane e inesperto Jonah Heidelbaum, che si unisce alla caccia per vendicare la nonna Ruth. Il loro scopo è duplice. Da una parte c’è la sete di vendetta, ma anche l’urgenza di sventare un piano di ricostituzione del Quarto Reich, che coinvolge personaggi di primo piano del Partito nazionalsocialista. Una lotta senza esclusione di colpi di scena, che si muove tra Stati Uniti, Sud America e Europa, riuscendo a mantenere dinamismo e tensione drammatica per tutti i diciotto episodi finora rilasciati.

Suggerire la visione di una serie come Hunters in occasione della Giornata della Memoria può risultare spiazzante per molti. Già da anni gli storici hanno messo in luce il ‘paradigma vittimario’ che sottende all’istituzionalizzazione delle giornate commemorative, la cui liturgia si alimenta spesso ‒ secondo l’efficace definizione di Giovanni De Luna ‒ di una ‘televisione del dolore’ fatta di film e letture ormai divenute di prammatica[1]. In questa storia invece, i buoni non sono sempre così buoni, e soprattutto non sono vittime, anzi combattono senza esclusione di colpi (e con un certo compiacimento per la violenza). Il riferimento, neanche troppo velato, è ovviamente alla ‘vendetta ebraica’ messa in scena in Inglourious Basterds. Rispetto alla pellicola di Tarantino però la serie di Weil intrattiene un dialogo più fitto con la storia. Se nella vicenda dei ‘bastardi’ la Shoah rimane sullo sfondo, come un non detto su cui tutto poggia ma che non viene mai messo a fuoco, i ‘cacciatori’ intrattengono con l’Olocausto un rapporto continuo, fatto di ricordi, presenze, flashback, excursus. Molti personaggi sono chiari calchi di persone reali, come Simon Wiesenthal (Offerman) o i coniugi Serge e Beate Klarsfeld (i Markovitz), protagonisti della cattura di Klaus Barbie in Bolivia e del processo a Maurice Papon. La scelta di ambientare la serie negli anni Settanta, infuocati dalla contestazione di studenti, afroamericani, femministe, allarga inoltre la scena. La lotta contro il nazismo non è solo degli ebrei ma di tutte le minoranze vessate, rappresentate sullo schermo dalla detective Millie Morris, nera e lesbica, che sfida gli ostracismi per portare alla luce i risvolti dell’Operazione Paperclip, attraverso la quale centinaia di scienziati, ingegneri e tecnici nazisti erano stati “riciclati” nella guerra tecnologica con l’Urss. Altrettanta attenzione viene dedicata alle ratlines, le reti di esfiltrazione di nazisti e collaborazionisti che nel dopoguerra possono contare su importanti appoggi istituzionali ed ecclesiastici. Oppure alla spoliazione dei beni ebraici, che aveva arricchito banche e istituti di credito in tutto il mondo. Nella serie entra anche di prepotenza il tema, molto discusso negli ultimi anni, degli impostori, cioè di coloro che, pur non avendo vissuto la tragedia dei campi di concentramento, se ne intestano ‒ più o meno in buona fede ‒ la memoria[2].

Insomma, Hunters è una serie ricca di spunti, che potranno essere ulteriormente approfonditi nelle ulteriori tre serie già annunciate da Weil. A partire dalla domanda etica centrale che aleggia su ogni episodio: è vero, come dice il Talmud, che vivere bene è la miglior vendetta, oppure, come ripete Meyer Offerman, la miglior vendetta è la vendetta? Si può distinguere chiaramente tra il buio e la luce? Il ‘mai più’ passa davvero anche per l’eliminazione dei nemici? L’alternativa tra il processo (caldeggiato dal giustiziere Wiesenthal) e l’omicidio sommario (praticato da Offerman) si ripresenta drammaticamente ad ogni azione dei Cacciatori, e ci consegna una coda aperta e densa di interrogativi. Nel finale di stagione infatti, pur decimata, la squadra è riuscita a catturare i cattivi e dare il via a quello che viene definito ‘processo del secolo’. Questo tradirà le aspettative come i Cacciatori si aspettano ‒ grazie a fughe clamorose, estradizioni impossibili e agganci potenti ‒ o si rivelerà finalmente capace di abbattere il nazismo?

Una menzione particolare meritano i personaggi femminili, ben scritti e ben recitati, che sostengono la narrazione e sono protagonisti di entrambi gli schieramenti, e le musiche, che spaziano dai Doors fino ai Maneskin per sottolineare i ritmi sincopati del racconto.

 


Note:

[1] G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa. Milano: Feltrinelli, 2011.

[2] J. Cercas, L’impostore, Milano: Guanda, 2015