I leoni di Sicilia

Foto di Disney+
di Francesco Bastoni
“Ci sono dei momenti in cui bisogna lottare per degli ideali, perché le cose cambino…”
La serie televisiva I leoni di Sicilia, ispirata al romanzo di Stefania Auci (a proposito, qui la popreview del libro firmata da Chiara Lusuardi), è una lente attraverso cui esplorare le grandi trasformazioni della Sicilia ottocentesca. La produzione si distingue non solo per la ricostruzione storica, ma anche per la capacità di affrontare temi fondamentali di un’epoca segnata da tensioni politiche, economiche e sociali: dallo scontro tra borghesia e nobiltà, alle difficoltà del matrimonio come contratto sociale e al ruolo delle solfatare nello sviluppo industriale, fino ai moti rivoluzionari. Il regista Paolo Genovese racchiude in otto puntate la storia di tre generazioni della famiglia Florio attraverso tre figure cardine per ciascuna di esse: il primo è Paolo, mercante di spezie di origini calabresi che decide di trasferirsi in Sicilia abbandonando la propria terra, ma con l’obiettivo e la speranza di rivoluzionare le sorti della propria famiglia. Il secondo è Vincenzo, colui che crea di fatto l’impero dei Florio, allargando e differenziando il commercio paterno fino a diventare uno degli uomini più ricchi dell’isola. Infine, Ignazio, espressione del futuro e della continuità.
Lo scontro tra borghesia e nobiltà. Il matrimonio come alleanza e leva politica
Il rapporto tra borghesia e nobiltà è uno dei temi più affascinanti della serie. I Florio sono il simbolo di una borghesia emergente e ambiziosa, la cui ascesa sociale, però, non avviene senza conflitti: il disprezzo dell’aristocrazia nei loro confronti è palpabile, così come il desiderio dei Florio di essere accettati in un mondo che non li considera suoi pari. Questa tensione è narrata con grande capacità, mostrando come la Sicilia dell’epoca fosse un microcosmo delle trasformazioni sociali in atto in tutta Europa. La borghesia, con il suo spirito imprenditoriale e la sua apertura alla modernità, rappresenta il futuro; la nobiltà, con la sua rigidità e il suo attaccamento a privilegi ormai anacronistici e la sua incapacità di adattarsi ai cambiamenti, incarna un passato destinato a svanire travolto dalla marea del progresso. Dal punto di vista sociale e storico è interessante come viene analizzato il matrimonio. Nell’Ottocento non è mai solo un atto d’amore, ma una questione di alleanze politiche, opportunità e sopravvivenza sociale[1]. La storia dei Florio ne è un esempio emblematico: l’unione tra Giulia Portalupi e Vincenzo Florio rappresenta la rottura con le convenzioni del tempo. Giulia, donna forte e indipendente, sfida le aspettative della società borghese rifiutando di conformarsi al ruolo subordinato che le viene imposto. Tuttavia, il suo legame con Vincenzo dimostra come il matrimonio, anche nelle sue sfaccettature più progressiste, resti intrappolato nella rete delle dinamiche economiche e sociali dell’epoca, in quanto la donna era considerata una proprietà, prima del padre e poi del marito. I legami che nascono al di fuori delle logiche di opportunità mettono in evidenza il conflitto tra desideri personali e aspettative collettive. In questo senso è emblematica proprio la figura di Vincenzo: da una parte incarna il vero rivoluzionario, dall’altra rimane schiavo delle tradizioni che lo consumano fino a trasformarlo in una figura simile allo Scrooge di Dickens.
I moti rivoluzionari siciliani
Un elemento centrale nella cornice storica dei I leoni di Sicilia è la rappresentazione dei moti rivoluzionari siciliani del 1848-1849, i primi in Europa. Le insurrezioni, parte integrante del Risorgimento italiano, sono mostrate non solo come eventi politici, ma anche come momenti di profonda trasformazione sociale. La Sicilia, terra di grandi contrasti, vive il Risorgimento in modo duale: da un lato, la lotta per la libertà dai Borbone si carica di speranze per un futuro migliore; dall’altro, i moti mettono in luce – ancora una volta- le tensioni tra una nobiltà decadente, una borghesia emergente e un popolo stremato dalla povertà. L’atteggiamento della famiglia Florio rimane ambivalente: da una parte molto vicina al rivoluzionario La Masa, dall’altra in stretti rapporti con i Borboni fino all’arrivo di Garibaldi.
Le solfatare: il cuore industriale della Sicilia
Un altro aspetto storico della serie da evidenziare è la rappresentazione del fenomeno delle solfatare[2], le miniere di zolfo che furono il motore dell’economia siciliana nel XIX secolo. Le solfatare non sono solo un simbolo del progresso industriale, ma anche una ferita aperta nella storia della Sicilia, fatta di sfruttamento del lavoro, spesso anche minorile. La famiglia Florio, con la sua intraprendenza commerciale, diventa un punto di contatto tra il mondo tradizionale dell’estrazione mineraria e la nascente economia moderna, orientata verso i mercati internazionali.
Vale la pena?
Paolo Genovese riesce nell’intento di dirigere una serie italiana con spirito internazionale. Sono evidenti i richiami a Luchino Visconti con il celebre “Il Gattopardo” (1963) durante i balli e i ricevimenti. Particolare plauso va al costumista Alessandro Lai e allo scenografo Massimiliano Sturiale. La serie riesce a trascinare lo spettatore nelle vicende della famiglia Florio, ma un maggiore respiro riguardo alcune tematiche (ad esempio il lavoro minorile) ne avrebbe aumentato lo spessore. Infine, la creazione di una colonna sonora maggiormente curata e dedicata avrebbe permesso un coinvolgimento nettamente superiore. Rimane comunque un prodotto degno di nota che merita sicuramente la visione, in attesa della seconda stagione.
Note:
[1] Per approfondire questo argomento si consiglia la lettura del seguente volume: Lombardi D., Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2008.
[2] Per approfondire questo argomento si consiglia la lettura del seguente volume: Addamo S., Zolfare di Sicilia, Sellerio, Palermo,1989.