Il caso Kaufmann. O come le leggi di Norimberga hanno stravolto la vita di un ebreo tedesco.

#popreview, romanzo

di Giulia Dodi

“Il Caso Kauffman”
(Giovanni Grasso, Rizzoli 2018)

«Se sono pentita? Francamente, non capisco di che cosa dovrei essere pentita…negli anni scorsi ci ho pensato spesso all’intera faccenda, al caso, come lo chiama lei. Ma non ho mai avuto pentimenti.»

È con queste parole che si apre il romanzo di Giovanni Grasso, Il caso Kaufmann (Rizzoli 2018), che prende spunto da una storia vera, quella che nella Germania nazista coinvolse Irene Seiler e Lehmann Katzenberger, rispettivamente una giovane ragazza ariana e un commerciante ebreo, per la quale quest’ultimo nel 1942 fu condannato alla decapitazione con l’accusa di aver inquinato la razza.

A rendere particolarmente interessante la vicenda dal punto di vista storico è il fatto che si trattò di una delle poche sentenze capitali espresse per il reato di offesa alla razza: Katzenberger fu accusato di aver avuto per anni una relazione con Irene, donna ariana di molti anni più giovane e, benché le prove reali fossero piuttosto scarse, il giudice volle emanare una sentenza che fosse soprattutto una punizione esemplare agli occhi dei tedeschi.[1] Per i suoi tratti peculiari, e per certi versi paradigmatici, non è la prima volta che questa vicenda viene presentata al grande pubblico, già nel 1997 la giornalista Christiane Kohl ne aveva tratto il romanzo uscito in Italia due anni più tardi col titolo L’ebreo e la ragazza,[2] e ben prima anche il cinema ne aveva intuito la potenza narrativa, tanto che nel 1961 è stata raccontata dal film di Stanley Kramer Vincitori e Vinti (Judgment at Nuremberg), con Burt Lancaster e Judy Garland.

Grasso sceglie uno stile semplice e lineare, immagina i protagonisti nella vita di tutti i giorni, ne delinea sentimenti e dubbi, e costruisce intorno a loro un universo di personaggi capace di dar conto della capillare diffusione dell’odio razziale nella Germania degli anni Trenta.

Nel 1933 le giornate di Lehmann Kaufmann, detto Leo, trascorrono lente tra la gestione della sua ditta di scarpe e la presidenza della Comunità ebraica di Norimberga, una vita tranquilla e abitudinaria in cui mette scompiglio l’arrivo di Irene, figlia di un amico d’infanzia di Leo in cerca di una sistemazione in città per studiare fotografia.

Nella trasposizione romanzata tra i due protagonisti si instaura immediatamente un buon rapporto: escono a cena, ascoltano la radio e si scambiano piccole attenzioni come cioccolatini e sigarette ma entrambi sanno di non poter andare oltre. Nel tempo trascorso insieme spesso si confrontano sulla situazione politica e sull’operato di Hitler, che si fa sempre più minaccioso nei confronti degli ebrei. A legarli ci sono stima, affetto ma anche desiderio ed il loro legame non passa inosservato a vicini e conoscenti di Kaufmann, che iniziano a sospettare l’esistenza di una relazione amorosa. 

L’odio e il pregiudizio diffuso dalla propaganda nazista avevano creato l’abitudine al sospetto nei confronti degli ebrei, ogni loro comportamento era sottoposto al giudizio della società ed ogni pretesto era buono per rafforzare il pregiudizio negativo nei loro confronti. Man mano che si scorrono le pagine entra nel vivo il meccanismo di costruzione della calunnia e dell’insinuazione del pericolo ebraico che la macchina persecutoria nazista aveva saputo diffondere tra la popolazione.

Il cuore di questa storia è nell’attenta rappresentazione del livore e del sospetto che cresce intorno a Leo e Irene, piccoli gesti e nuove abitudini diventano indizi e prove di colpevolezza, tanto basta per far arrestare Kaufmann e processarlo. Sono due i procedimenti penali che danno forma al racconto di Grasso: quello del 1942 contro Leo Kaufmann e, nel dopoguerra, quello contro il giudice che lo aveva condannato; il primo è un manifesto antisemita fatto di pregiudizi, mancanza di prove certe e volontà di dare l’esempio con una condanna severa più che di appurare la verità, il secondo è il tentativo di ricostruire la vicenda e quale ruolo ebbero realmente i protagonisti.

Entrambi sono momenti chiave, da cui emergono impostazioni e modi di intendere la giustizia completamente diversi: da un lato il regime raccoglie dicerie, ipotesi e maldicenze che corroborano i peggiori stereotipi antiebraici, e anche chi cerca di indagare seriamente è costretto a cedere di fronte alla macchina persecutoria. Mentre il protagonista è costretto a svendere la propria ditta dopo ripetute minacce e ad assistere alle razzie dei suoi negozi, deve anche frenare la rabbia di Irene, spaesata di fronte a tanto odio ma determinata a proteggere Leo. Con saggezza ed ironia Kaufmann mette in guardia Irene dal pericolo che poteva derivare anche da una minima critica confidenziale al regime e cerca in ogni modo di allontanarla da sé, intuendo il rischio che anche una semplice amicizia tra un uomo ebreo e una donna ariana poteva procurare.

Dall’altro lato a Norimberga nel 1947 ci fu il tentativo di condannare questo modo di agire delle autorità naziste, accusate di aver commesso crimini contro l’umanità, che si nascosero dietro i “non ricordo”, “non sapevo” e i cavilli burocratici e legislativi per affermare di aver svolto “solamente” il proprio lavoro, ma alla sbarra finiscono anche i testimoni e i loro coinvolgimento determinante per la sentenza capitale. A ritornare più volte è il tema dell’obbedienza cieca alla legge, scaricando la colpa su chi quella legge l’ha fatta e non sulle responsabilità di chi l’ha applicata con estremo zelo; nel processo del dopoguerra i testimoni, che con le loro dichiarazioni avevano contribuito a incolpare Leo e Irene, elencano continue autogiustificazioni: “A noi sembrava solo giusto dare a quei due una lezione di decenza: la cosa era troppo sfacciata”, “se le leggi erano ingiuste, io non lo so. Di certo non le ho fatte io. Le leggi, caro signore, le fanno i potenti: e noi poveracci, che sgobbiamo tutto il giorno, non possiamo far niente, se non ubbidire” o “io, caro signore, ho la coscienza a posto, ho fatto il mio dovere, ho rispettato le leggi”.

Le vicende personali e biografiche diventano quindi il modo per mostrare l’operato della macchina dell’odio e il suo farsi rapidamente protagonista, plasmando azioni e pensieri e facendosi largo tanto nel mondo politico quanto nel vivere quotidiano. Nella girandola di personaggi che alimentano i sospetti intorno a Leo e Irene vi sono persone comuni: la portinaia, la segretaria, i vicini di casa e il proprietario del ristorante in cui Leo cenava da anni, che nell’odio antisemita trovarono una possibilità di riscatto sociale, di approvazione da parte del regime e di partecipazione alla costruzione del nuovo stato nazista. 

L’odio modifica i rapporti umani, stravolge le relazioni e oscura qualsiasi sporadico tentativo di seguire la ragione. La narrazione costruita da Grasso mette bene in evidenza la trasformazione da cittadini semplici, fino a quel momento persino poco interessati alla questione razziale, a feroci sostenitori dell’odio capaci di dare forza all’intero sistema persecutorio, fatto non solo di azioni estreme e violentissime, ma anche di dicerie, maldicenze e sospetti che, come in questa storia, potevano ugualmente avere conseguenze irreparabili.


[1] R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, vol. I, Einaudi, Torino, 2017, pp. 169-171.

[2] Ed. originale C. Kohl, Der Jude und das Mädchen, Hoffmann und Campe Verlag, Hamburg, 1997.