La fonte della vita

di Eleonora Moronti
“La fonte della vita ”
(Bergsveinn Birgisson, 2021)
Una storia di terre e di dubbi.
Così potremmo definire “La fonte della vita”[1], romanzo di Bergsveinn Birgisson, in cui le terre sono quelle delle regioni più impervie dell’Islanda e i dubbi quelli del protagonista, il magister danese Magnús Áurelius Egede.
Traendo ispirazione[2] da uno degli eventi più catastrofici dell’età moderna, la sequenza di eruzioni vulcaniche del Lakagígar che si scatenarono sul territorio islandese tra il giugno del 1783 e il febbraio del 1784, con conseguenze devastanti di collasso demografico e immiserimento generale, nonché di serie alterazioni climatiche globali, Birgisson presenta un’opera complessa e di sicuro ambiziosa per la materia che si propone di trattare. Il romanzo segue le vicende di un protagonista di fantasia, il giovane magister inviato dall’Accademia delle Scienze e dalla Camera delle Finanze danesi nelle aree più remote d’Islanda, al duplice scopo di effettuare alcuni rilevamenti geografici e di raccogliere dati sulla fattibilità di un’operazione di deportazione di massa della popolazione, dall’Islanda alla Danimarca, approfittando della crisi della prima per sostenere il processo di industrializzazione della seconda.
Avventurandosi in un paesaggio ostile e perturbante, popolato da comunità piegate da epidemie e carestie e con cui stenta a comunicare, Magnús Áurelius si ritrova così immerso in una dimensione che mette alla prova ogni aspetto dell’approccio razionalista alla sua indagine geografica ed etnografica. Il rigore sfocia ben presto in rigidità e questa svela, a sua volta, il condensato di pregiudizi che nutrono la matrice intrinsecamente colonialista della spedizione. Natura e società vengono interpretate dal giovane come un tutt’uno, uno spazio pre-culturale, dominato da spettri, arretratezza e ignoranza, modellato da pratiche antiscientifiche e superstizioni invincibili. Il terreno di scoperta diventa così il medesimo in cui trovare riflesse le proprie angosce, ossessioni, fantasie, fino alla necessità- grazie anche all’incontro con la misteriosa Sesselja- di rivedere la propria attitudine e lasciarsi pervadere dall’imprescindibilità del dubbio e dalla curiosità verso l’altro.
Con una miscela ricercata di licenze poetiche quasi ucroniche, dettagli filologicamente accurati e riferimenti storici più puntuali, Birgisson rispolvera così forme e contenuti fondamentali della letteratura di viaggio settecentesca e ottocentesca, nata dalla diffusione dei resoconti degli esploratori.
Il profluvio di storie, mappe, illustrazioni che tra XVIII e XIX secolo popolarono il dibattito pubblico europeo si raccolse infatti in un florido patrimonio bibliotecario, in cui l’universo dell’indagine scientifica viveva accanto a quello dei racconti d’avventura e delle proiezioni fantastiche.
L’elemento più riuscito del romanzo sta dunque proprio nella caratterizzazione del modus operandi dell’illuminista dell’élite intellettuale europea. Il magister di Birgisson aderisce infatti al profilo dell’esploratore moderno[3], mosso dal desiderio di nobilitare filosoficamente la propria esperienza di viaggio attraverso il contributo all’attività compendiaria enciclopedica dei philosophes illuministi, con quel proliferare di inchieste onnicomprensive e tassonomiche che aspiravano a tenere insieme la ricerca naturalistica e botanica, geografica e cartografica, linguistica ed antiquaria.
È a questo tipo di fenomeno che Birgisson guarda per raccontare una vicenda per lo più inventata, ma nella quale si recuperano temi importanti per la riflessione storica. Quella dell’autore non è una riproposizione ombelicale e statica di tradizioni più antiche, perché il romanzo, oltre a porre continuamente il tema del dialogo, delle sue possibilità e criticità, è esso stesso dialogo: con la propria struttura, con i generi letterari, con i propri nuclei tematici e sempre in modo critico, acuto, persino polemico. Talvolta si corre il rischio di replicare dei cliché della narrativa di viaggio, in cui l’eroe scopre sé stesso attraverso il contatto educativo e salvifico con comunità percepite come fuori dal tempo, senza divenire, astoriche che, in virtù di questo preservarsi nell’immutabilità, posseggono conoscenze “autentiche”, ancestrali, radicate in un rapporto simbiotico con la natura, ma l’autore riesce a trovare soluzioni creative per arginare e talvolta mettere in discussione anche questi topoi.
Ne deriva un’opera sofisticata che ha il merito di interrogare in modo intelligente e perspicace i concetti di incontro, di scoperta, di relazione centro-periferia, uomo-ambiente, ma anche di progresso, di civiltà e stato di natura, di logos e mito. Nella narrazione si snodano discorsi antropologici, politici, storici e filosofici sulle strategie di assoggettamento e dominio per l’appropriazione e il controllo delle risorse; ma anche su come si costruiscono i sistemi di interpretazione e connessione alla realtà, su come si selezionano le fonti e su come le società assicurano la trasmissione del sapere nel tempo. Fiumi diversi che sgorgano dalla stessa sorgente: la ricerca di cosa voglia dire, per le comunità e per gli individui, andare alla fonte della vita, cioè della propria storia e della propria verità.
Note:
[1]Birgisson, Bergsveinn, La fonte della vita. trad. it. Silvia Cosimini, Milano, Iperborea, 2021 (ed. or. Lifandilífslœkur, Reykjakiv, Bjartur, 2018).
[2] Si veda l’intervista di Daniela Pizzagalli all’autore su L’Avvenire.it. Pizzagalli, Daniela, «Lo scrittore Birgisson «La mia Islanda mette alla prova la ragione”, L’Avvenire.it, 3 luglio 2021, https://www.avvenire.it/agora/pagine/la-mia-islanda-mette-alla-prova-la-ragione.
[3] Ibid.