Vita e destino (2a parte)
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Il memoriale di Treblinka. Di Adrian Grycuk – Opera propria, CC BY-SA 3.0 pl, Collegamento
di Antonio Prampolini
“Vita e destino”
(1980,di Vasilij Grossman)
I lager nazisti e i gulag staliniani[11]
Il romanzo inizia con la descrizione di un lager nazista in un’alba nebbiosa d’autunno: luogo di arrivo di strade e binari su cui transitano camion e tradotte con il loro carico umano di deportati. Un lager che, privo di un nome e di una località di riferimento, vuole rappresentare idealmente l’intero mondo concentrazionario nazista formato da campi di prigionia, di lavoro, di sterminio. Un mondo in cui domina una «regolarità disumana». Grossman definisce i lager «le nuove città della Nuova Europa» volute da Hitler. “Città” riservate a «criminali che non avevano commesso crimini», perfettamente organizzate e al cui funzionamento partecipavano gli stessi “abitanti”, inseriti nel sistema dei lager in modo tale da non richiedere un enorme apparato di polizia per mantenere l’ordine e il controllo.
La nebbia copriva la terra. /…/ Poi dalla nebbia emerse la recinzione del lager: più giri di filo spinato tesi tra piloni di cemento. Una dietro l’altra, le baracche formavano strade ampie e diritte. La ferocia disumana dell’enorme lager si esprimeva in quella regolarità perfetta. Le izbe russe sono milioni, ma non possono essercene – e non ce ne sono – due perfettamente identiche. Ciò che è vivo non ha copie. Due persone, due arbusti di rosa canina, non possono essere uguali, è impensabile …. E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne.[12]
Nei lager della morte, nei campi di sterminio, i convogli arrivavano giorno e notte. Il martellare delle ruote, il rombo delle locomotive, il boato degli stivali delle centinaia di migliaia di prigionieri diretti al lavoro con le cinque cifre dei numeri azzurri cucite sui vestititi riempivano l’aria. I lager erano le nuove città della Nuova Europa. /…/ Come sembravano ingenue, bonarie e patriarcali rispetto alle città-lager, all’alone tra il porpora e il nero che incombeva sui forni crematori e faceva perdere il senno, le vecchie prigioni relegate alla periferia delle città.[13]
Si sarebbe potuto credere che per gestire l’enorme massa dei perseguitati servisse un numero enorme, un esercito di milioni – o quasi – di sorveglianti e sentinelle. Invece no. Passavano intere settimane senza l’ombra di un SS! Erano i detenuti a farsi carico del servizio di polizia all’interno delle città-lager. Erano i detenuti a far rispettare l’ordine dentro le baracche, a controllare che nel paiolo ci fossero solo patate marce e guaste dal gelo e a curarsi che quelle più grandi e belle finissero ai depositi alimentari dell’esercito. /…/ I detenuti erano ammessi al sancta sanctorum dello Stato-lager, alla compilazione delle liste di selezione e ai pestaggi nelle Dunkelkammern, i budelli di cemento. Si sarebbe potuto credere che, se anche fossero spariti i comandanti, i prigionieri non avrebbero tolto l’alta tensione ai recinti, avrebbero continuato a lavorare e non sarebbero comunque evasi.[14]
Nei capitoli 42-50 del Libro primo, Grossman descrive le condizioni di vita degli ebrei prigionieri nel ghetto di Kiev in Ucraina e il loro trasporto su carri ferroviari con destinazione le camere a gas nei campi di sterminio nazisti. Il viaggio verso il lager di Sof’ja Osipovna, una dottoressa ebrea ucraina: «l’uomo non ha soltanto istinti umani».
/Sof’ja Osipovna/ era sconcertata: c’erano voluti pochi giorni /i giorni del suo viaggio in treno/ per percorrere a ritroso il cammino da uomo a bestia sporca, infelice, senza nome né libertà, laddove la strada per diventare esseri umani si era allungata per milioni di anni.[15]
Quella notte il treno si fermò due volte, e tutti tesero l’orecchio al crepitare dei passi delle guardie, cercando di captare qualche parola in russo o in tedesco. In quelle stazioncine russe immerse nella notte la lingua di Goethe faceva paura, ma ancora più sinistro era il russo in bocca alla guardie che obbedivano ai tedeschi. All’alba Sof’ja Osipovna aveva fame come tutti gli altri e come tutti gli altri sognava un sorso d’acqua. Era un sogno piccolo, il suo, timido: una lattina ammaccata con un’ombra di liquido caldo sul fondo. Si grattò con un movimento rapido e fugace, come un cane che scaccia le pulci. Aveva finalmente capito la differenza tra vivere ed esistere. Aveva finito di vivere, ma continuava ad esistere. E per quanto si trattasse di un’esistenza penosa e insignificante, il pensiero di una morte violenta la terrorizzava.[16]
Dai racconti che ascoltò Sof’ja Osipovna scoprì che l’uomo non ha soltanto istinti umani. Seppe di una donna che aveva messo la sorella paralizzata in un mastello e l’aveva trascinata per strada, in una notte d’inverno, facendola morire congelata. Seppe che c’erano state madri che avevano uccisi i figli, e che una di loro si trovava sul loro vagone. Seppe di persone che avevano vissuto per mesi nascoste nelle fogne, come topi, cibandosi di immondizia, disposte a qualunque tormento pur di sopravvivere. Con il nazismo la vita degli ebrei era tremenda, ma gli ebrei non erano né santi, né farabutti: erano persone.[17]
L’arrivo dei treni con il loro carico di uomini. Le operazioni di “scarico” degli ebrei e la loro entrata nel lager.
Era l’ultimo giorno di viaggio, finalmente. Sferragliare di vagoni, stridore di freni, silenzio. Poi rumore di lucchetti e un ordine: «Alle heraus!» Cominciarono a scendere su un binario che la pioggia aveva bagnato di fresco. Come sembravano strani, quei volti familiari, dopo il buio del vagone! /…/ Facendo tintinnare sull’asfalto gli scarponi ferrati, le due SS di pattuglia incedevano lente nei loro cappotti militari. Camminavano altere e pensierose senza degnare di uno sguardo /gli ebrei/. /…/ Ogni tanto le SS si scambiavano un’occhiata d’intesa e qualche rapida battuta. Scivolavano sull’asfalto come il sole nel cielo. Il sole non fa caso al vento, alle nuvole, alla tempesta sul mare e al fruscio delle foglie, ma nel suo fluire sa che sulla terra tutto si compie grazie a lui.[18]
I viaggiatori si trovarono davanti una città. I suoi confini, a ovest, erano immersi nella nebbia, e alla nebbia si mescolava il fumo scuro delle ciminiere di fabbriche lontane. La scacchiera delle baracche era anch’essa coperta di bruma, e l’abbinamento della nebbia con il rigore geometrico delle strade fra le baracche era stupefacente. /…/ I viaggiatori furono portati in un grosso spiazzo. Nel mezzo, su un palco di legno di quelli che di solito si allestiscono per le feste di un paese, li attendeva qualche decina di persone. Un’orchestra. Uomini molto diversi fra loro, come diversi erano i loro strumenti. Alcuni si girarono a guardare la colonna in avvicinamento. Ma poi un uomo canuto con un giaccone chiaro disse qualcosa e tutti, sul palco, afferrarono gli strumenti. Fu come il grido spaurito e improvviso di un uccello, e l’aria lacerata dal filo spinato e dal fischio delle sirene, l’aria che puzzava d’immondizia e di grasso bruciato, si riempì di musica. /…/ Chi è in lager, chi è in prigione, chi dalle prigioni è uscito e va incontro alla morte conosce bene la forza della musica. Nessuno la sente come chi ha provato il lager e la prigione o sta andando a morire. /…/ L’orchestra ricominciò a suonare. Chi era stato scelto per lavorare nel lager fece il suo ingresso nella città costruita sulla palude. /…/ Chi era stato condannato, intanto, andava a morire.[19]
La “banalità del male”[20] si manifestava, nei lager nazisti, nell’apparente normalità con cui i tedeschi uccidevano gli ebrei.
All’appello serale lo Stubenälteste Käse, scassinatore di Amburgo che portava ghette gialle e una giacchetta a scacchi color crema con le tasche applicate, era di buonumore. Canticchiava piano piano /…/. Quella sera il suo viso sgualcito color zafferano e gli occhi di plastica scura sprizzavano allegria. La mano paffuta, candida e senza nemmeno un pelo, con dita in grado di strangolare un cavallo, continuava a dare pacche sulle spalle e sulla schiena ai detenuti. Per lui uccidere era semplice quanto fare uno sgambetto a qualcuno per poi deriderlo. Dopo aver ammazzato un uomo restava turbato qualche istante in tutto, come un gatto a cui tolgono il maggiolino con cui giocava. Kese non metteva fretta a quelli che dovevano subire la sua “operazione”, non li insultava e non era mai capitato che li spintonasse o li picchiasse. I due gradini in cemento della sezione speciale li aveva saliti più di quattrocento volte ormai, provando sempre un certo interesse per la persona di cui stava per occuparsi: per quello sguardo terrorizzato e impaziente, per la rassegnazione, lo strazio, la paura e la curiosità con cui il condannato accoglieva chi era lì per ammazzarlo. Kese non riusciva a spiegarsi perché fosse proprio la normalità del suo lavoro a piacergli tanto. La stanza non aveva niente di speciale: uno sgabello, il pavimento di pietra grigia, lo scarico, un rubinetto, un tubo, un ufficetto con un registro. L’operazione era ormai una routine, ne parlava perfino in tono scherzoso. Se usava una pistola, Kese diceva che ficcava in testa “un chicco di caffè”, mentre l’iniezione di fenolo diventava “una piccola dose di elisir”. E tra chicchi di caffè ed elisir la vita umana, pensava Kese, non aveva più segreti per lui. [21]
Il soldato Rose era di guardia allo sportello d’ispezione; quando la procedura era ultimata, toccava a lui dare il segnale di scarico della camera a gas. /…/ Rose aveva fatto il callo al suo lavoro, e quel che vedeva dallo sportello non lo turbava più come nei primi tempi. /…/ Aveva fatto il callo al suo lavoro, ma non gli piaceva. /…/ Non c’era nulla di divertente nell’osservare gli ebrei che si contorcevano nella camera a gas. A Rose non piaceva quel lavoro, ma ne conosceva i vantaggi, segreti e manifesti. Alla fine di ogni giornata, un uomo dall’aspetto serioso, un dentista, gli consegnava un involto con alcune otturazioni d’oro: una goccia, rispetto a quanto affluiva alla direzione del lager, ma la moglie di Rose aveva già messo da parte un paio di chili di prezioso metallo. Era il loro futuro radioso, il sogno di una vecchiaia tranquilla che si esaudiva. Rose era stato un ragazzo debole e spaurito, incapace di lottare davvero per la vita. Ma non aveva mai dubitato che il partito avesse un unico scopo: il bene dei più deboli e dei più piccoli. E già sentiva su di sé gli effetti benefici della politica di Hitler: era un uomo piccolo e debole, ma per lui e la sua famiglia, ormai, la vita era decisamente più facile, più bella.[22]
I capitoli 39-41 del Libro primo sono dedicati al racconto dei gulag staliniani e dei loro prigionieri: un’umanità disperata che oscillava tra la pratica della violenza e del cinismo per sopravvivere e la ricerca di sentimenti di amicizia, di fraternità per affrontare e sopportare il dolore della detenzione e la fatica dei lavori forzati.
L’inizio di una giornata di lavoro in un gulag della Siberia.
Alle cinque del mattino i piantoni cominciarono a svegliare i detenuti. Era buio pesto, ma una luce impietosa rischiarava le baracche, la luce cruda delle carceri, delle stazioni ferroviarie e degli ambulatori. In migliaia si infilavano i pantaloni imbottiti, si arrotolavano le pezze ai piedi e si grattavano i fianchi, la pancia e il collo. Scendendo, quelli dei pancacci di sopra urtavano coi piedi le teste di quelli che, sotto, si stavano vestendo, i quali però non imprecavano: spostavano la testa in silenzio, oppure scostavano con una mano i piedi che li avevano colpiti. C’era qualcosa di profondamente innaturale nel risveglio notturno di quella massa umana, in quelle fasce per i piedi, nel sussultare di schiene, teste e fumo di sigarette, nel chiarore della luce elettrica: centinaia di chilometri quadrati di tajga erano fermi in un silenzio gelido, mentre il gulag brulicava di gente, di movimento, di fumo, di luce. Aveva nevicato per tutta la prima metà della notte, la neve sbarrava le porte delle baracche e copriva la strada che portava ai pozzi delle miniere. Le sirene iniziarono ad ululare, e forse in un angolo di tajga un lupo rispondeva a quell’urlo prolungato e lamentoso, Nello spiazzo del gulag i cani abbaiavano, da lontano giungevano il rombo dei trattori intenti a sgombrare le strade e le grida delle sentinelle che si davano la voce./…/ In quel mescolarsi di notte e neve iniziava la terribile giornata di lavoro nel gulag.[23]
Il dramma di un detenuto, un bolscevico che aveva partecipato alla rivoluzione del 1917 (Abarčuk): un comunista condannato ai lavori forzati senza avere commesso alcun crimine e costretto a vivere a contatto con veri criminali. Nonostante le violenze subite, Abarčuk rimane fedele agli ideali della rivoluzione.
Quella notte il detenuto Abarčuk venne preso dalla disperazione. Non dalla solita cupa disperazione del gulag, ma da una disperazione che bruciava come la malaria, che lo faceva gridare, agitare sul pancaccio, tempestarsi di pugni le tempie e il cranio. /…/ «Stanotte pensavo a mio figlio, quello di primo letto. Sarà al fronte, vedrai» /disse Abarčuk ad un amico/ «Vorrei che ne venisse un bravo comunista. Quando lo incontrerò gli dirò di tenere a mente che quanto è successo a suo padre è un caso, un’inezia. Che la causa del partito è sacra. Che è la suprema legge dei nostri tempi!».[24]
Durante l’inchiesta gli avevano dato cibi salati per tre giorni di seguito e neanche una goccia d’acqua, e l’avevano picchiato. Non si trattava tanto di firmare un verbale dove confessava di essere una spia o un sabotatore, né volevano che facesse dei nomi. Lo aveva capito. Volevano che dubitasse della causa a cui aveva consacrato la vita. All’inizio aveva pensato di avere a che fare con dei criminali: gli sarebbe bastato ottenere un appuntamento con il responsabile e il malvagio inquirente sarebbe finito in manette. Col passare del tempo, però, si era reso conto che non si trattava solo di qualche sadico. E aveva conosciuto le leggi dei treni-tradotta e quelle delle stive delle navi. Aveva visto che i comuni si giocavano a carte non solo i beni, ma anche le vite altrui. Aveva visto i tradimenti e la depravazione più bieca. «Se sei qui un motivo ci sarà», si diceva, e pensava che solo una minima parte di quelle persone – lui compreso – era stata imprigionata per errore; tutti gli altri meritavano di essere dentro: il gladio della giustizia si abbatteva sui nemici della rivoluzione. /…/ La sua fede era incrollabile, la sua dedizione al partito sconfinata…[25]
La «sorte tremenda» che è toccata ai comunisti detenuti nei gulag nelle parole che Abarčuk rivolge ad un compagno di prigionia:
«Sai a cosa ho pensato? Non invidio più chi sta fuori. Invidio chi sta nei lager tedeschi. Che bellezza! Sapere che a picchiarti è un nazista. A noi, invece, è toccata una sorte tremenda: siamo prigionieri dei nostri stessi compagni…».[26]
Nel Libro terzo, che chiude il romanzo, Grossman, affronta di nuovo l’argomento dei gulag attraverso le parole e il pensiero di un detenuto politico della Lubjanka, Kacenelenbogen, un vecchio agente della Čeka[27]. Kacenelenbogen racconta al compagno di cella (l’ex commissario politico Krymov) la storia del progetto di Naftaly Frenkel, un ingegnere deportato alle isole gulag staliniani.
Dal gulag Frenkel spedì a Stalin un progetto geniale: «geniale», il vecchio ĉekista /Kacenelenbogen/ usò proprio quella parola. Nel progetto esponeva meticolosamente, con competenza economica e tecnica, come impiegare masse enormi di detenuti per costruire strade, dighe, centrali idroelettriche e bacini artificiali. E il detenuto Frenkel venne promosso su due piedi tenente generale dell’MGB, il ministero della sicurezza nazionale, il Padrone /Stalin/ aveva apprezzato la sua idea. Fu così che il XX secolo irruppe nella semplicità del lavoro consacrato dalla semplicità delle compagnie di detenuti e dei vecchi lavori forzati, un lavoro fatto con vanghe, piccozze, accette e seghe. Il progresso arrivò anche nel mondo dei gulag, e nella loro orbita presero a girare locomotive elettriche, scavatori, bulldozer, seghe elettriche, turbine, trivelle e un numero spropositato di macchine e trattori. I gulag utilizzarono il trasporto aereo di merci e passeggeri, i collegamenti radio e la teleselezione, le macchine automatiche e i sistemi più moderni di arricchimento minerario. I gulag progettavano, pianificavano, tracciavano grafici, creavano miniere, fabbriche, nuovi mari e gigantesche centrali elettriche. Si sviluppavano impetuosamente, i gulag, e al confronto le vecchie colonie penali sembravano ridicole, commoventi quanto le costruzioni di legno.[28]
Per Kacenelenbogen, «il bardo degli organi di sicurezza dello Stato», i gulag avrebbero dovuto espandersi fino ad inglobare l’intera società sovietica. Grossman descrive la lucida e, allo stesso tempo, folle idealizzazione dei lager staliniani dell’ex-agente della Čeka, per condannare in nome delle libertà individuali il connubio tra la modernità (la razionalità dei sistemi di produzione di massa, lo sfruttamento intensivo del lavoro) e la violenza (nelle sue molteplici manifestazioni) del potere politico nei regimi totalitari del XX Secolo.
Secondo lui /Kacenelenbogen/ il gulag era un riflesso ingrandito, iperbolico, della vita al di là del filo spinato. Ma sia al di qua sia al di là del filo la realtà obbediva – senza contraddizioni – alla legge di simmetria. /…/ Se il sistema dei gulag fosse stato sviluppato con coraggio e coerenza, rimuovendo freni e difetti, la sua evoluzione avrebbe portato a rimuovere il confine fra i due mondi. Il gulag e la vita fuori del gulag si sarebbero fusi. /…/ Solo nei gulag al principio della libertà individuale si contrapponeva in forma assolutamente pura il principio sommo: la ragione. E sarebbe stato quel principio a portare i gulag a un livello che avrebbe loro permesso di autoabolirsi, di fondersi con la vita delle campagne e delle città.[29]
Note
[11] Sui lager nazisti e i gulag staliniani la documentazione è vastissima. Tra i più recenti contributi, disponibili sul Web in lingua italiana, alla conoscenza e alla divulgazione dell’universo concentrazionario dei due “totalitarismi gemelli” (quello nazista e quello stalinista) ci limitiamo qui a segnalare il dossier “La violenza di stato nel Novecento: lager e gulag”, pubblicato sulla rivista digitale <novecento.org> (n.7/2, febbraio 2017). Il dossier contiene anche una sitografia sull’argomento a cui rinviamo: <http://www.novecento.org/dossier/la-violenza-di-stato-nel-novecento-lager-e-gulag/gulag-sovietici-e-lager-nazisti-sitografia-per-una-comparazione/>. Per quanto riguarda, in particolare, la memorialistica sui gulag, non vanno dimenticate le opere degli altri grandi scrittori russi del Novecento: “La giornata di Ivan Denisovič” e “L’arcipelago Gulag” di Aleksandr Solzenitsin; “I racconti della Kolyma”, di Tichonovič Salamov.
[12] Vasilij Grossman, Vita e destino, traduzione dal russo di Claudia Zonghetti, Milano, Adelphi, 2008, p. 13.
[13] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 16.
[14] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 16.
[15] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 165.
[16] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 166.
[17] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 167.
[18] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 466.
[19] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 467-470.
[20] La “banalità del male” è un concetto espresso da Hanna Arendt in un suo famoso saggio, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil (1963), scritto dopo avere seguito il processo ad Adolf Eichmann che si era svolto a Gerusalamme nel 1961 e che si era concluso con la condanna a morte del gerarca nazista. Per la Arendt il “male” perpetrato da Eichman nei confronti degli ebrei non doveva essere imputato ad una sua indole diabolica, quanto piuttosto ad una totale inconsapevolezza dell’amoralità delle sue azioni. Sull’argomento: <https://it.wikipedia.org/wiki/La_banalit%C3%A0_del_male>; <http://www.filosofico.net/are1njklasddt2.htm>.
[21] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 264-265.
[22] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 462-463.
[23] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 145-146.
[24] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 146-148.
[25] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 149.
[26] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 153-154.
[27] La Čeka, abbreviazione di črezvyčajnaja komissija (Commissione Straordinaria), è stata la polizia politica segreta che ha operato nell’Unione Sovietica tra il 1917 e il 1922 <https://en.wikipedia.org/wiki/Cheka>.
[28] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 727.
[29] Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 728.