Ripercorrere i binari dell’indifferenza: il Memoriale della Shoah di Milano
di Chiara Lusuardi
Google Maps tratteggia una distanza di meno di 600 metri tra la Stazione centrale di Milano – una delle più frequentate di tutta Italia – e il Memoriale della Shoah, presso il più comunemente conosciuto Binario 21.
Pochi passi per entrare sotto il piano dei binari, in una zona utilizzata nei primi decenni del XX secolo per la movimentazione su rotaie non di passeggeri, ma di merci, bestiame e posta, che, dalla fine del 1943 ai primi mesi del 1945, viene convertita al trasporto di ebrei e deportati politici verso i campi di concentramento in Europa.
Entriamo in ossequioso silenzio, io e la mia famiglia, con gli occhi aperti e le orecchie tese, i nervi che riaffiorano ogni volta che percepiamo il roboante passaggio di un treno in superficie, a dimostrazione del fatto che siamo nel ventre della stazione, soggetti a quei movimenti digestivi che scandiscono la ritmicità e la frenesia di un’artificiosa natura umana, troppo spesso cieca e sorda verso ciò che accade intorno. Ad accoglierci è un grande muro su cui è scolpita in caratteri giganteschi la parola “INDIFFERENZA” fortemente voluta dalla senatrice Liliana Segre, superstite dal campo di Auschwitz e partita da qui il 30 gennaio 1944 insieme al padre Alberto. Un concetto e un atteggiamento diffuso che, a suo avviso, sono stati determinanti nella realizzazione del progetto di annientamento della razza ebraica e di altre minoranze a opera del regime nazista in Europa. E in effetti, questo muro, che simbolicamente rappresenta il vuoto che ha circondato molte vicende di deportazione, presto ci nasconde al mondo esterno, così come ottant’anni fa facevano i portoni che chiudevano lo scalo merci agli occhi dei passanti su viale Ferrante Aporti (oggi rinominata in quel tratto piazzale Edmond J. Safra).
Anche noi siamo stati inghiottiti.
Nicola, la nostra sapiente guida, ci accoglie con calore. Siamo tanti, stranamente tanti per dedicare due ore del nostro tempo a un luogo in cui la tiepida luce del Sole domenicale quasi non arriva. Con grande preparazione ci disegna l’intero contesto storico: ci racconta dell’originale funzione di quei binari; non risparmia le colpe degli Italiani nella costruzione di una politica razzista, che dal 1935 si dispiega nella conquista dell’Impero e nella guerra d’Etiopia e nel 1938 nel Manifesto degli scienziati razzisti, nel censimento degli ebrei e nella promulgazione delle leggi razziali; approfondisce gli avvenimenti del 1943, con lo sbarco in Sicilia, la destituzione di Mussolini, la firma dell’armistizio e l’inizio della guerra civile in Italia.
Il 10 settembre 1943 Milano viene occupata dalle truppe tedesche, che requisiscono i raggi IV e V del carcere di San Vittore per destinarli alla detenzione principalmente di ebrei e oppositori politici della provincia, della zona di frontiera italo-svizzera e delle grandi città del nord. Da qui, dopo interrogatori violenti e attese estenuanti, centinaia di persone sono condotte al famigerato Binario 21, caricate su un totale di venti convogli (non si ha contezza del numero complessivo preciso dei deportati e delle deportate) inviati ad Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Fossoli, Bergen-Belsen, Flossembürg, Ravensbrück e Bolzano da cui la maggior parte non farà ritorno.
Questa è la storia, dimenticata o accantonata dalla società dell’immediato dopoguerra concentrata sulla ricostruzione fisica, politica e morale della neonata Repubblica. Solo nel 2002 nasce il progetto di rifondare su questo luogo, rimasto pressoché intatto, un memoriale che rappresentasse quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale inaugurato solo nel 2013. La ristrutturazione ha cercato di preservare la fisionomia dell’edificio e gli elementi che la caratterizzano sono sempre gli stessi: il cemento – eterno e imperturbabile, il ferro dei binari e i sassi – a perpetuazione dei luoghi di sepoltura ebraici.
Nicola è un abile narratore. Le sue parole e i suoi passi ci conducono alla scoperta dell’Osservatorio, composto da lenti che volutamente offuscano la visuale, creando quel disorientamento che ha animato le vite di molti deportati e testimoni della Shoah. Ci conducono poi nell’area dei binari, dove sono collocati vagoni merci originali.
Uno è aperto.
Saliamo.
C’è una luce fioca, nella folla perdo di vista i miei figli. Siamo una quarantina di persone libere, consapevoli di ciò che stanno facendo, sconosciute, stipate su un carro bestiame che trasportava fino a otto cavalli e, poi, fino a una sessantina di deportati che avrebbero affrontato un viaggio di una settimana verso “destinazione ignota”. Lo spaesamento è tuttora forte. Incrocio le braccia al petto, come a proteggermi da ciò che quel vagone ancora oggi testimonia.
Uno per volta i carri bestiame erano riempiti, piombati e posizionati su un carrello traslatore che si bloccava in corrispondenza di un ascensore montavagoni. Giungevano così in superficie, tra i binari 18 e 19 della Stazione centrale e si ricomponevano pronti per la partenza. Ancora oggi – ironia della sorte – in corrispondenza di questo passaggio in superficie, c’è un grande cartello che recita “VIETATO TRASPORTO PERSONE”. Un ammonimento per noi visitatori.
Oltre il vagone, percorriamo la banchina, su cui sono innestate venti lapidi, una per ogni convoglio da qui partito, con relative date e destinazioni, per arrivare, in corrispondenza di un successivo binario, al Muro dei Nomi: una grande installazione in cui sono riportati i nomi delle 774 persone deportate nei primi due treni. Gli unici di cui si ha certezza, mentre restano ignoti ancora oggi i nomi e i numeri degli altri viaggi. Un muro di nomi bianchi (le vittime), in cui spiccano soltanto 27 nomi arancio (i sopravvissuti), che però in modo dinamico li propone in evidenza uno a uno, a rotazione, per dare loro la dignità di individui e permettere a noi di soffermarci un istante su ognuno di loro come vita vissuta e non soltanto come elemento dell’universo della Shoah.
Immagino che questo sia un percorso simbolico che, dal progetto di annientamento di determinate categorie sociali e dalla sua effettiva realizzazione grazie a questi i trasporti, passando per la ricostruzione storica di quanto avvenne quaggiù, ci riporta alla centralità delle persone e delle loro identità uniche restituendo i nomi e i cognomi a ognuno di loro, per quanto possibile.
Scendiamo lungo una rampa elicoidale, come i nostri pensieri attorcigliati a grumi scuri di un sentimento di orrore che non passa mai, e accediamo a uno spazio conico buio, con un unico spiraglio di luce. È il luogo della riflessione, ci spiega Nicola, dove è possibile fermarsi in silenzio a pensare e pregare dopo la visita. I rumori dei treni sopra di noi diventano sussurri lontani grazie alle pareti insonorizzanti e ci concentriamo sull’unica riga illuminata nel pavimento, che indica la direzione di Gerusalemme, città-simbolo delle tre maggiori religioni monoteiste, come invito al confronto, al dialogo, alla solidarietà tra gli uomini e le donne di ogni tempo. Ci stringiamo gli uni accanto agli altri sulle panche e, mentre abbraccio mia figlia seduta sulle mie gambe, la nostra guida prova a convertire le forti emozioni che pervadono i nostri animi in speranza, quella speranza concreta di poter creare un mondo migliore a partire dalle nostre conoscenze e consapevolezze.
Sebbene la visita guidata termini qui, la scoperta del Memoriale non è esaurita.
Da questo spazio di riflessione si giunge alla biblioteca e all’archivio della Fondazione CDEC, il luogo di studio e conoscenza per tramandare la memoria. Un ambiente luminoso, ricco di storie e di vite, di riscatto e di prospettive sul futuro, come ogni luogo di cultura. Ed è proprio da qui che nasce la profonda contrapposizione con l’installazione posta all’ingresso del Memoriale, in una narrazione circolare. Ci aveva infatti accolti all’ingresso l’installazione 600 days of war, che gli artisti Lorenzo e Simona Perrone hanno dedicato al conflitto in Ucraina. Una montagna di autentici libri trattati con gesso e vernice acrilica bianca ma feriti e sanguinanti aumenta per ogni giorno di guerra, a denunciare che la catastrofe bellica si ripercuote in modo violento anche sui luoghi di cultura e che quindi pervade ogni ambito della vita umana. Ogni libro rappresenta la cultura, il sapere, la presa di coscienza, il pensiero migliore della nostra civiltà ed è l’invito a contrastare questa catastrofe umanitaria con lo studio e la conoscenza.
Usciamo e torniamo nell’aria mite di una Milano autunnale che non si ferma mai. Sembra di riemergere da un mondo lontano, fuori dal tempo. Eppure quel tempo è stato ed è ancora estremamente attuale. Quell’oscurità che popola il Binario 21 fa parte di tutte e tutti noi e di troppe situazioni internazionali. Averne fatto esperienza e averla attraversata in punta di piedi ci deve spingere a tentare di comprenderla e di affrontarla con sensibilità e partecipazione. Un bagaglio che storiche, storici, operatrici e operatori culturali maneggiano con cautela e grande attenzione, ma anche una delle sfide dei luoghi di memoria: possono e riescono a essere punti di incontro dell’altro sia di ieri sia di domani?
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