Ghana, Costa d’Oro. Porta su un continente

Il cortile del Saint George’s Castel a Cape Coast

di Silvia Lotti

«L’aereo ci strappa bruscamente alla neve e al gelo per scaraventarci il giorno stesso nell’abisso ardente dei tropici. Il tempo di stropicciarci gli occhi ed eccoci immersi nell’inferno del caldo umido. Cominciamo subito a sudare. Se siamo partii dall’Europa d’inverno, ci togliamo il cappotto e sfiliamo i golf. È il primo gesto d’iniziazione che noi, gente del nord, compiamo sbarcando in Africa.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

Africa is a country è un motto che a volte usa chi ride di tutti coloro che parlano di Africa come se fosse un unico grande Stato, dove la cultura e le vicende storico-politiche sono un tutt’uno.

No, non è vero, dai, lo sanno tutti che l’Africa ha moltissime nazioni. Però, è innegabile che nel linguaggio comune si fa prima a dire “vado a fare un viaggio in Africa”, piuttosto che dire il nome del singolo stato, e automaticamente nella testa di un interlocutore medio si formano due immagini mentali: un bel safari a farsi rincorrere dai leoni nel bush o un progetto umanitario in una qualche zona semidesertica, entrambi rigorosamente nell’Africa subsahariana. Se però sei anche un ragazza, qualcuno ti ricorda che là sono proprio tutti neri (con allusioni sessuali comprese).

L’Africa è un continente immenso, che per quanto ci immaginiamo rurale, povero, ricoperto solo di terra rossa, abitato da persone con la pelle nera, con abiti sgargianti e che mangiano solo banane, ha mille mila sfaccettature diverse, aspetti che molto più difficilmente arrivano a noi europei, soprattutto se non ce ne interessiamo con letture varie. Vale poi la stessa cosa per loro nei nostri confronti, sia chiaro – non pensiamo che la cultura occidentale sia pervasiva nel mondo nonostante sentiamo di esserne i padroni.

«È un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un vero e proprio oceano, un pianeta a parte, un cosmo eterogeneo e ricchissimo. È solo per semplificare, per pure comodità, che lo chiamiamo Africa. In realtà, a parte la sua denominazione geografica, l’Africa non esiste.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

«In tutta l’Africa ogni comunità di una certa importanza ha la una cultura, un suo sistema di usi e di fedi, una propria lingua e i propri tabù, e tutto ciò è incredibilmente complicato, involuto e misterioso. Per questo i grandi antropologi non hanno mai parlato di “cultura africana” o di “religione africana” in generale, ben sapendo che non esiste niente di simile e che l’essenza dell’Africa sta nella sua sconfinata varietà. Hanno sempre visto le culture di ogni popolazione come un mondo a parte, unico e irripetibile. […] Invece il pensiero europeo, incline al pensiero razionale, alle etichette e alle semplificazioni, fa volentieri di ogni erba un fascio, accontentandosi di facili stereotipi.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

Per cui, in un modo casualmente personale, sono andata per la prima volta in Africa in punta di piedi, entrando da una piccola porta, il Ghana, ma che, se si guarda al passato, almeno dell’Africa occidentale, è stato un luogo fondamentale per tutta la storia mondiale. Mi sono ritrovata così in una terra viva, che sentiva profondamente questo suo passato, di cui però, in quanto italiana (ma non come europea), mi sono sentita estranea, distante, non coinvolta. Non la sensazione stupida di sollievo “beh noi italiani quelle cose lì non le abbiamo fatte” (parliamone), bensì il fatto di constatare che, se non fossi andata fin lì, non l’avrei mai conosciuta veramente.

Il nome che il Ghana ha avuto fino al 1957, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, è stato quello di Costa d’Oro, poiché era una terra ricchissima e fertile, una terra abitata da millenni da vari gruppi etnici, linguistici e religiosi, tra cui, in particolare, spicca il potente regno degli Ashanti (o Asante), che abitavano la parte centrale dell’odierno stato, estendendosi dalla Costa d’Avorio al Togo, con la città di Kumasi come capitale.

Una abitazione tradizionale di un sacerdote Ashanti, con la loro particolare simbologia (dintorni di Kumasi).

Alcuni esempi di simboli Adinkra, tipici della cultura tradizionale Ashanti. L’uccello che guarda all’indietro si chiama Sankofa e significa “impara dal passato”.

Poi, negli ultimi decenni del Quattrocento, con le esplorazioni sono arrivati gli europei. Per primi i portoghesi, che nel 1471 sbarcarono nel porto di Elmina, seguiti soprattutto da olandesi (‘600), e inglesi (inizio ‘800), i quali hanno avviato commerci fittissimi che andavano da metalli preziosi e materie prime (oro, diamanti, bauxite), al cacao, al legname, alla polvere da sparo, fino a diventare a tutti gli effetti una colonia dell’Impero Britannico. Ma, a un certo punto, la merce che più è stata esportata dalla Costa d’Oro sono stati gli schiavi, catturati dalle regioni più interne e da zone di paesi attuali come Niger, Mali, Togo e Burkina Faso.

Lungo la costa del Ghana si trovano ancora – qualcuno ben conservato, altri molto meno – circa quaranta forti, costruiti ora dall’uno ora dall’altro degli europei, come base per i propri commerci e punto di raccolta per gli schiavi, che direttamente dalle prigioni sotterranee venivano imbarcati verso le Americhe. La concorrenza in questa terra ricca era talmente forte che erano necessario avere le strutture per difendere, anche militarmente, i propri interessi economici.

Il Saint George’s Castle di Cape Coast

Le prigioni femminili La porta del “non ritorno” che, vista da fuori, è stata chiamata la porta “del ritorno”

Il Ghana ha fatto proprio questo passato, l’ha rielaborato e, da diversi anni, cerca di porsi narrativamente e storicamente nei confronti del mondo, ma soprattutto verso gli afrodiscendenti, come la loro terra d’origine, che dovrebbero visitare se vogliono capire chi sono e da dove vengono. Infatti il 2019 è stato decretato “The Year of Return”, l’anno del ritorno, in occasione del 400esimo anniversario della tratta degli schiavi, iniziata proprio nel 1619. Un anno di celebrazioni e eventi particolari nei confronti delle popolazioni di origine africana sparse nelle Americhe affinchè visitino il paese in cui affondano le loro origini, alla stregua dei nostri viaggi della Memoria nei campi di concentramento, per ritrovare le radici ancestrali della loro identità, ripercorrendo a ritroso il viaggio degli schiavi. Oltre a questo però, il Ghana ha predisposto anche incentivi particolari per invogliare gli afrodiscendenti a stabilirsi in modo definitivo nel paese (per questo si veda l’articolo Ritorno alle radici in Ghana sul numero 1329 della rivista Internazionale).

La cosa interessante, che non ci si aspetta in un paese che ha pochi luoghi di turismo culturale e storico, è che la schiavitù e la tratta non sono posti con toni pietistici e vittimistici, bensì in modo oggettivo e critico, facendo risaltare sì le sofferenze delle persone che venivano catturate, molte delle quali morivano prima ancora di essere imbarcate o durante il viaggio verso la costa, ma anche il fatto che la schiavitù in quella zona dell’Africa non l’hanno portata gli occidentali. Essa era una pratica già in uso in precedenza presso le popolazioni locali le quali, con le esplorazioni, hanno intercettato le istanze capitaliste e commerciali degli europei, entrando molto spesso in trattative, per cui africani che catturavano altri africani per poi rivenderli a commercianti inglesi, portoghesi o olandesi. Anzi, spesso i figli maschi illegittimi di uomini bianchi e donne nere venivano di fatto cresciuti per diventare schiavisti. La popolazione Ashanti stessa entrò in rotta di collisione con l’avanzata degli inglesi verso l’interno, poichè danneggiava i propri commerci con il resto degli europei, tra cui anche gli schiavi.

I mercanti di schiavi, quindi, potevano essere ed erano africani. Non è forse così anche ora, nelle rotte migratorie che dall’Africa subsahariana viaggiano per il deserto per trovare fortuna nel mar Mediterraneo?

Ad ogni modo, questa forte presenza degli europei nella Costa d’Oro e frequenti contatti con la popolazione locale, forse, ha dato una marcia in più a questo paese, dal momento che è stata la prima nazione dell’Africa ad ottenere l’indipendenza nel 1957 con la guida carismatica di Kwame Nkrumah, politico inizialmente dalle ampie vedute socialiste e panafricaniste, successivamente trasformato in un despota, come purtroppo è spesso accaduto in molti altri paesi.

«Nel 1947, compiuti gli studi in America, Nkrumah ritornò in patria. Fondò un partito nel quale attirò gli ex combattenti della seconda guerra mondiale nonché molti giovani, e in un comizio ad Accra lanciò il suo grido di guerra, “L’indipendenza subito!”. Nell’Africa coloniale dell’epoca suonò come una bomba. Dieci anni più tardi il Ghana diventava il primo stato indipendente africano a sud del Sahara, e Accra il centro provvisorio e informale di ogni nuovo movimento, idee e attività dell’intero continente.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

«Le foto di Nkrumah sono dappertutto: sui giornali (ogni giorno), sui manifesti, sulle bandierine, sule gonne di cotone lunghe fino ai piedi. Un’energica faccia d’uomo di mezza età, seria o sorridente, ripresa in modo da suggerire che il leader guarda al futuro. “Nkrumah è il nostro salvatore!” mi dice con voce vibrante d’ammirazione il giovane insegnante Joe Yambo.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

Gli ultimi decenni del ‘900 hanno quindi visto il susseguirsi di vicende simili ad altri stati (indipendenza, deviazione verso l’autoritarismo e repressione, vari colpi di stato militari), fino ad arrivare a una pacificazione nella metà degli anni ’90, che ancora prosegue, in un clima di timida, ma costante, crescita economica.

Il mio viaggio è stato, grazie all’intuizione di una acuta viaggiatrice, un ripercorrere la strada che facevano gli schiavi, da quando venivano catturati fino al momento di salire sulle navi, rendendo abbastanza bene l’idea della fatica e delle umiliazioni che milioni di persone hanno dovuto subire. Idealmente il viaggio può cominciare dalla regione del Volta, una lingua di terra che sta tra la foce e il lago Volta e il confine con il Togo (terra che in realtà apparteneva al Togoland tedesco, ma che con i trattati di pace della IGM è passato agli inglesi), dove vive un’etnia minoritaria, gli Ewe, che sono stati tradizionalmente oggetto di razzie da parte di popolazioni locali più forti, come per esempio gli Ashanti (che sono di etnia Akan, la più numerosa in Ghana). Da qui, risalivano a piedi il paese, arrivano al Nord, vicino al confine con il Burkina Faso, dove venivano riuniti in campi di raccolta in mezzo alla savana insieme ad altri schiavi provenienti da altre regioni. Uno di questi campi è tutt’ora visitabile, il Pikworo Slave Camp di Navrongo.

Zona di riposo per gli schiavi, le conche scavate nella pietra servivano per mangiare e bere.

Alcuni abitanti del villaggio di Navrongo cantano un brano diffuso tra gli schiavi, per cercare di dimenticare a cosa stavano andando incontro, che è stato tramandato oralmente.

Qui, nei campi di raccolta, avveniva la prima transazione degli schiavi, che venivano selezionati e acquistati da schiavisti che poi li avrebbero condotti verso sud, attraversando il paese in senso longitudinale passando per il suo centro, Kumasi, centinaia e centinaia di chilometri percorsi a piedi.

«In Africa la strada battuta o asfaltata è una novità che esiste solo da qualche decina di anni. In molte zone continua a essere una rarità. Al posto delle vie carrozzabili c’erano sentieri usati dagli uomini e dal bestiame. Quando spostarsi lungo i sentieri spiega come mai qui la gente abbia l’abitudine di camminare in fila indiana e come mai la conservi anche quando si trova su una strada spaziosa. E si capisce anche come mai i gruppi in cammino tacciano: in fila indiana è difficile fare conversazione.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

«La strada da Accra a Kumasi non è solo un percorso di cinquecento chilometri che va dalla costa atlantica verso l’interno dell’Africa: è anche un viaggio verso una zona del continente dove i segni e le tracce del colonialismo sono meno numerosi che sulla fascia costiera. […] Gli occupanti preferivano restare vicini alle coste, alle navi, alle fortificazioni armate, alle provviste di cibo e di chinino.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

Coloro che sopravvivevano, venivano fatti fermare ad Assin Manso, un piccolo villaggio a pochi chilometri dalla costa, per permettere loro di fare l’ultimo bagno nel fiume, ripulirsi dalla terra rossa che sicuramente ricopriva la loro pelle, prima di arrivare nelle prigioni delle fortificazioni.

L’imbocco del sentiero che dal memoriae di Assi Manso porta al punto del fiume in cui gli schiavi si lavavano prima di arrivare ai forti sulla costa.

Il memoriale di Assin Manso

Infine, l’ultimo tratto, sempre a piedi, per giungere sulla costa, venendo smistati nei vari forti, a seconda della nazionalità del mercante di turno: Cape Coast ed Elmina sono a pochissimi chilometri di distanza, ma il primo era presidiato dagli inglesi, il secondo dagli Olandesi. Qui venivano rinchiusi nelle prigioni, ammassati e al buio per diverse settimane, in condizioni igieniche disastrose, per poi essere imbarcati, passando per una piccola porta, uno alla volta, per essere contati meglio e per evitare fughe. E da qui, non facevano più ritorno.

Il cortile centrale dell’Elmina Castle e la porta del non ritorno

Ma sono sicura che il soffio caldo dell’harmattan, il verde della foresta, il giallo della savana e il rosso della terra d’Africa non hanno dimenticato tutte queste vite.

«L’autobus si addentra sempre di più in una folta foresta tropicale. Nelle zone temperate la vita biologica si manifesta con ordine e disciplina: qui crescono i pineti, là le querce, altrove le betulle. Perfino nei boschi misti regno trasparenza e stabilità. Ai tropici invece la vita biologica sembra in preda alla follia, a un delirio selvaggio di riproduzione e proliferazione. Si è colpiti da sovrabbondanza una lussureggiante e invadente, dall’incessante erompere di una massa verde vigorosa e alitante, ogni particella della quale – albero, cespuglio, liana, rampicante – dilagando, inerpicandosi l’una sull’altra, stimolandosi ed eccitandosi a vicenda, si è così abbarbicata, intrecciata e accorpata che solo con lame d’acciaio e con una fatica da forzati si riesce ad aprirvi varchi, tunnel, sentieri.» (Ryszard Kapuściński, Ebano)

L’onnipresente bandiera ghanese: rosso, giallo e verde

Tutte le foto sono state scattate dall’autrice tra dicembre 2019 e gennaio 2020.

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