Come mi batte forte il tuo cuore

#popreview, saggistica

Foto tratta dal profilo Flickr di ho visto Nina volare (https://www.flickr.com/photos/41099823@N00/4149126401), licenza CC 2.0

di Silvia Lotti

Era lì, in mezzo a tutti i miei libri di saggistica, da un paio d’anni, comprato sull’onda dell’emozione in una bancarella dell’usato. Ha ancora il copri prezzo, un regalo non apprezzato si vede. Peccato, perché è un gran bel libro. Non un saggio, non un romanzo, quanto un percorso, una ricerca. Fino ad ora lo guardavo da lontano e lui guardava me dallo scaffale della libreria, incerta se provare a vedere cosa ci fosse dentro, perché sapevo che sarebbe stato intenso. Poi è arrivata la quarantena, chiusa nel nido di casa – un nido che potesse contenere e concentrare la sofferenza – e ho deciso che era arrivato il momento.

Come mi batte forte il tuo cuore è il percorso che ha compiuto Benedetta Tobagi per conoscere il padre Walter, di cui non aveva praticamente alcun ricordo da vivo. Walter Tobagi è stato un giornalista del Corriere della Sera, ucciso da alcuni terroristi della Brigata XVIII marzo la mattina del 28 maggio 1980 a pochi passi da casa. È stato tra le ultime vittime degli anni Settanta; pochi mesi dopo ci sarà con la strage di Bologna, grande atto finale di un decennio concentrato e faticoso da vivere.

È un percorso, quello che fa l’autrice, pubblico e privato allo stesso tempo, poiché cerca di capire chi fosse il Walter Tobagi giornalista e il Walter Tobagi uomo e padre. Allo stesso modo, cerca di accettare il dolore di figlia cresciuta senza padre sia per il proprio sentire interiore, sia per la proprio identità “pubblica” dell’essere “figlia di”.

La figura di Walter Tobagi è anche la lente di ingrandimento per guardare agli anni Settanta, ancora così incastonati nell’immagine cristallizzata di anni di piombo, nonostante sia stato un decennio di grande fermento culturale e sociale – le grandi riforme sociali italiane vengono da lì. In questo libro memoria e storia cercano di andare di pari passo, incrociando vissuti personali e fonti, documenti e rappresentazioni. Gli anni Settanta, credo, si trovano in una situazione di passaggio: sono oggetto di storia perché tanti sono i progetti di ricerca e di restituzione pubblica che sono portati avanti da diversi anni; sono oggetto di memoria privata e pubblica, poiché i parenti delle vittime e molti terroristi sono vivi e ancora si stanno interrogando sugli eventi di quegli anni; sono materia di giornalismo poiché, tra le tante cose, gli esiti giudiziari di alcuni processi iniziati in quegli anni devono ancora concludersi o sono fermi a sentenze insoddisfacenti. Sono un terreno in cui i contorni sfumano e non c’è più un confine netto tra l’essere uno storico che parla degli anni Settanta o essere un semplice protagonista di quegli anni che ricorda un pezzo della sua vita. Un esempio può essere il libro Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria. di Giovanni De Luna, in cui guarda a quel passato con un doppio paio di occhiali, quello dello storico e quello del militante di allora. Benedetta Tobagi stessa ha la doppia veste di parente di una vittima e di storica.

Grazie alle pagine scritte da Benedetta, ne esce una figura di alto profilo morale, che, se fosse ancora vivo, scriverebbe ancora analisi lucide e lungimiranti sull’attualità. Ci lascia un esempio di approccio alla realtà e alle professioni che indagano su di essa estremamente onesto e radicale. Credo che permetta a tutti i lavoratori della conoscenza e della società di tirare un sospiro di sollievo. Perché dà un senso profondo a un ruolo che va anche svolto in lentezza, prendendosi delle pause di riflessione, guardando la realtà da una posizione discosta, potendosi avvalere del suo essere controcorrente rispetto alla velocità del mondo contemporaneo. Diventa così una questione di metodo.

«Papà la sente tutta la responsabilità di parlare a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Le sue convinzioni circa i compiti di giornalista si concentrano nella massima: “Poter capire, voler spiegare”. Si sente vicino a quella che Bocca definisce la funzione maieutica della stampa: “aiutare la gente a tirare fuori quello che ha dentro”, informare con l’intento di fornire al lettore gli strumenti per ragionare e chiavi interpretative per intendere la realtà. […] “Le conclusioni vengono sempre dopo un’inchiesta, e non prima”, diceva citando Mao Zedong; dalla pratica del “mestiere di storico” trattiene poi la necessità di controllare le proprie passioni politiche nell’interpretare i fatti e le fonti […]»

E, forte della sua formazione storica, sapeva come coniugare le esigenze del giornalismo con quelle della ricerca storica, spesso non sempre di facili rapporti, salvando il buono dell’uno e dell’altra.

Un ruolo scelto e portato avanti da parte di Tobagi con un’intenzione ben precisa, che ci lascia con parole molto ferme, rivendicando un modo di vivere la propria libertà non scontato in un periodo di contrapposizioni politiche forti, in cui il vestire una casacca piuttosto che un’altra è costata la vita di molte persone. Tobagi la vita ce l’ha rimessa lo stesso, ma è stato l’ultimo a essere toccato, finché ha potuto si è difeso.

«E mi sono risposto che al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io sento molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente, e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani. Mi sento molto eclettico, ideologicamente; ma sento anche che questo eclettismo non è un male, è una ricerca: è la ricerca di un bandolo fra tante verità parziali che esistono, e non si possono né accettare né respingere in blocco.»

Benedetta riesce a tenere insieme tanti fili, che vanno a intrecciarsi nel nodo di tutto, suo padre. Al di là di tutte le questioni e di parole sbrodolate, rimane la dolcezza e la pace dell’aver ritrovato una persona che dava perduta per sempre.