La guerra dei Bepi: le vicende di tre generazioni di Italiani nel Novecento

di Andrea Oldani
“La guerra dei Bepi”
(Andrea Pennacchi, People 2020)
Di recente ho avuto il tempo di dedicarmi alla lettura di un libro che attendevo da alcuni mesi: La Guerra dei Bepi. Edito dalla casa editrice “People”, il libro ripercorre le vicende di tre generazioni di veneti nel corso del Novecento attraverso i ricordi e la ricostruzione effettuata da un interprete d’eccellenza: Andrea Pennacchi. L’attore, teatrista dal 1993 che in tempi recenti ha conquistato il grande pubblico con il personaggio de “il Pojana” a Propaganda Live[1], ripercorre le vicende della sua famiglia dal 1915 al 1993. Il testo propone il copione teatrale di un monologo, sviluppato a partire dai ricordi, dalle storie che si raccontavano in famiglia e dalla ricerca storica effettuata dallo stesso autore. Il lettore così si immerge nelle storie del nonno Bepi, bersagliere durante la Grande Guerra sull’Ortigara, del padre Valerio – nome di battaglia Bepi – partigiano e deportato al campo di concentramento “Zement” di Ebensee (sottocampo alle dipendenze di Mauthausen) in Austria. L’ultima vicenda narrata è quella di un gruppo di giovani soldati che presero parte alla Battaglia di Checkpoint Pasta (Mogadiscio 2 luglio 1993), il primo scontro armato in cui fu coinvolto l’esercito italiano dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il filo rosso del libro è la figura del “Bepi”, il corrispettivo italiano del “Tommy” inglese[2], che come canterebbe Guccini si nutre dei miti eterni della Patria e dell’Eroe, che lo portano a ricercare l’epica omerica in ogni conflitto che attraversa. Il Bepi, tuttavia, ne esce sempre profondamente cambiato nell’animo, disilluso nei confronti della società, di quel sistema di valori che aveva alimentato il suo ardore bellico. Il Bepi è un sopravvissuto che ha smarrito una parte di sé e che a stento trova le parole per potersi esprimere. Andrea Pennacchi si fa carico di questo gravoso compito e si cala nei panni del cantore del focolare domestico, la cui voce scalda e ammalia il lettore, come il racconto di un anziano parente.
L’aspetto interessante del testo di Pennacchi è il modo in cui viene affrontato il rapporto con la Storia, diverso per ognuna delle tre vicende raccontate, ma che ha sempre come punto di partenza la memoria e i ricordi tramandati oralmente. Nel primo caso, Pennacchi ha ridato voce al nonno Bepi attraverso la lettura delle opere di Gadda, Lussu e Salsa[3] che ricostruiscono la vita di trincea. Nel caso del padre Valerio, invece, la ricerca si fa più articolata poiché in parallelo alla ricerca bibliografica (Hugh MacDonald e Florian Freund[4]) e alla testimonianza dello zio acquisito Celio, comandate della Brigata partigiana, Pennacchi si è immerso nella ricerca d’archivio (Anpi, Distretto Militare e Archivi Centrali dello Stato). In ambedue i casi lo studio e la ricerca permettono all’autore di infrangere il silenzio del padre e del nonno, un vuoto che l’autore sentiva il bisogno di colmare. La vicenda della Battaglia di Checkpoint Pasta, invece, vede coinvolto l’autore in prima persona poiché anche lui soldato di leva fino a qualche mese prima, e quindi perfettamente in grado di condividere i pensieri e gli ideali dei soldati dei blindati italiani a Mogadiscio. Da un episodio simile, avvenuto nel medesimo teatro bellico, gli Americani trassero ispirazione per il film Black Hawk Down, un film di guerra oramai cult, che raccontò al grande pubblico una vicenda “scomoda” ricorrendo, tuttavia, a una narrazione che secondo la maggior parte dei critici tende ad avvicinare il pubblico sia all’eroismo dei soldati sia a un sentimento generale di giustificazione dell’interventismo americano (ricordiamoci che il film venne girato nel 2001 e uscì nelle sale l’anno successivo). Il nostro paese, ha invece ha un rapporto diverso con il cinema di guerra e con i recenti conflitti che quindi trovano poco spazio nel discorso pubblico (eccenzion fatta per l’attentato a Nassirya), e infatti alla Battaglia del Pastificio[5] è stato dedicato solo uno speciale su Rai Storia. Anche in questo caso c’è dunque un silenzio da colmare con una voce. Ecco perciò che Pennacchi raccoglie le testimonianze dirette di alcuni dei soldati della Folgore coinvolti nello scontro, unitamente al materiale d’archivio usato per lo speciale andato in onda su La storia siamo noi, e ne ricava una breve pièce teatrale vivace e dai toni graffianti, alleggerita dall’uso del dialetto, sull’ennesima generazione di Bepi desiderosa di affrontare la guerra, ma estremamente impreparata a viverne i suoi drammi.
Ho apprezzato La Guerra dei Bepi per due motivi. In primo luogo perché Pennacchi decide di ricorrere a un testo teatrale per dar vita alla sua interpretazione. Attraverso questa pièce, e la sua potente messa in scena, emerge l’importanza di linguaggi non canonici e più narrativi, di cui è il teatro è espressione, per rimettere in circolazione tematiche di carattere storico, adattandole alle esigenze di un pubblico che sia il più ampio ed eterogeneo possibile. Durante l’estate 2020, in occasione dell’uscita del libro, Pennacchi ha girato diverse piazze italiane leggendo e recitando alcuni passi del testo. La scenografia scarna ed essenziale[6], supportata da gestualità, silenzi e da un linguaggio colorito e dialettale, sollecita l’immaginazione dello spettatore che è catapultato in un’atmosfera familiare. Pennacchi, come osserva giustamente Fabio Mini nella prefazione del testo[7], riesce così a catturare l’attenzione del pubblico che si rende conto di non essere solo parte di uno spettacolo, ma “comunità di ascolto” che trasmette una memoria.
Il secondo motivo è di carattere personale. La Guerra dei Bepi ha la forza di riportare a galla le vicende familiari del lettore attraverso un dialogo interiore tra le memorie personali e quelle dei personaggi del libro. Ripercorrendo le vicende dei Bepi veneti, sono affiorati alla memoria i racconti di mio nonno Giuseppe – in lombardo Pepi – sulle Guerre Mondiali.
Innanzitutto la Grande Guerra, vissuta attraverso i ricordi del bisnonno Luigi, fante e contadino della Brianza (non troppo dissimile ai quei tempi dal profondo Veneto – Pojanistan[8]) catapultato in trincea dove rimase impressionato dalla potenza delle mitragliatrici austriache, prima di essere catturato e imprigionato in un campo di detenzione in Austria da cui cercò di scappare per sei volte. Al settimo tentativo ci riuscì e trovò riparo in una fattoria dove, nascosto da una famiglia locale, lavorò i campi e accudì le bestie “del nemico”. “Da eroe fuggitivo a connivente con il nemico”, avrebbe potuto dire qualche giornale nazionalista o ufficiale sabaudo; più probabilmente il bisnonno Luigi dovette adattarsi, pur non conoscendo una parola di tedesco, e finì per intendersi meglio con una comunità contadina austriaca piuttosto che con i suoi superiori e la loro rigida gerarchia militare.
E poi anche la Seconda Guerra Mondiale, vissuta attraverso il racconto del nonno Pepi, all’epoca scolaro alle Elementari, che viveva in campagna, dove c’era cibo a differenza della città, ma anche la contraerea tedesca accampata fuori dalle cascine e con i cannoni rivolti verso al cielo, sempre in cerca di aerei nemici.
L’opera di Pennacchi si muove in una “cornice del presente” frammentata in storie, memorie, tradizioni a cui spesso fa da contraltare uno spazio pubblico occupato dalla politica della commemorazione. Tra questi due poli lo storico spesso si trova a operare, confrontandosi con memoria, oralità e storia – tre componenti ben presenti nel testo – cercando di ricondurle a un contesto generale, riflettendo sulla distanza che intercorre tra vissuto e raccontato, reinterpretando e correggendo laddove necessario. La Guerra dei Bepi in prima battuta sovrappone le memorie personali e successivamente stimola la riflessione del lettore, incoraggiando la ricerca della connessione tra la microstoria e le grandi narrazioni ricorrendo al metodo di indagine storica come fa anche l’autore. Questo testo è significativo perché invita il lettore a guardare al proprio passato in maniera retrospettiva e critica e a considerare le proprie memorie come tasselli che compongono delle memorie collettive o delle identità più ampie. Questa operazione assume, quindi, una valenza significativa se inserita in un contesto pieno di conflittualità, contrasti e lacerazioni – soprattutto per quanto riguarda le memorie – come il Novecento.
Note:
[1] Trasmissione condotta da Diego Bianchi, in onda su LA7
[2] Con questo termine venivano indicati i soldati semplici inglesi durante la Prima Guerra Mondiale
[3] Gadda, Giornale di guerra e di prigionia; Lussu, Un anno sull’Altopiano; Salsa Trincee. Confidenze di un fante
[4] MacDonald, The gates. The Nazi concentration camp at Ebensee, Austria; Freud KZ Zement Ebensee
[5] L’altro nome con cui è conosciuta la Battaglia di check point Pasta.
[6] Che personalmente mi ha ricordato la “Terra di nessuno” posta tra le trincee.
[7] Fabio Mini, Prefazione pp. 5-6, in A.Pennacchi, La Guerra dei Bepi.
[8] Termine coniato da Andrea Pennacchi per indicare il Veneto quale patria del Pojana, caricatura di un piccolo imprenditore leghista del nord che l’attore intrepreta durante il programma Propaganda Live