Quando diventai comunista. Aldo Natoli, l’antifascismo, il carcere

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di Giovanni Cerro

Il carcere e il confino sono stati luoghi di apprendistato e formazione intellettuale, politica e umana per un’intera generazione di antifascisti. Il caso di Aldo Natoli non fa eccezione, come dimostra il volume Lettere dal carcere (1939-1942). Storia corale di una famiglia antifascista, curato da Claudio Natoli con la collaborazione di Enzo Collotti (Roma, Viella, 2020). Nel libro si trova raccolta una documentazione che può definirsi straordinaria perché quello di Natoli è uno dei pochi epistolari di antifascisti condannati dal regime conservatosi nella sua integrità. Sono giunte sino a noi, infatti, sia le lettere da lui inviate ai suoi familiari tra il 1939 e il 1942, prima da Regina Coeli e poi dal carcere per detenuti politici di Civitavecchia, sia le missive indirizzate dai parenti al recluso. Questo ricco materiale consente non soltanto di ricostruire una parte della traiettoria esistenziale di Aldo, ma anche di tracciare un denso ritratto della sua famiglia: i genitori, la sorella Elsa, i fratelli Glauco e Ugo, i nipoti e la compagna Mirella. Arricchiscono il volume una nota introduttiva di Claudio Natoli, che ripercorre la biografia del padre fino alla scarcerazione; una testimonianza del nipote di Aldo, Enzo Collotti, che nel periodo della prigionia dello zio era poco più che un bambino e il cui nome risuona in tutta la corrispondenza; un brano scritto dallo stesso Aldo sul periodo di detenzione trascorso a Civitavecchia; infine, un ricco repertorio documentario e fotografico.

Al momento del suo arresto, nel dicembre 1939, Aldo è un giovane e brillante medico, con interessi per l’immunologia e le malattie del sangue. Presta servizio presso la Clinica medica del Policlinico di Roma, città dove si è trasferito da Messina per completare i suoi studi universitari e dove è entrato precocemente in rapporto con gli ambienti antifascisti. Alla metà degli anni Trenta, con i compagni Bruno Sanguinetti, Lucio Lombardo Radice, Pietro Amendola e Aldo Sanna, dà vita al Gruppo comunista romano. Nonostante la denominazione, il gruppo somiglia a un esperimento di «Fronte popolare»: i suoi componenti hanno orientamenti ideologici eterogenei e molti di loro, Natoli compreso, non hanno ancora abbracciato in modo compiuto il comunismo. Ad unirli è soprattutto l’avversione al regime, oltre che un saldo sentimento di amicizia. Prima del carcere, Natoli conosce di Marx soltanto il Manifesto e per sua stessa ammissione non ha alcuna familiarità con il proletariato romano. Per il gruppo si occupa di mantenere le relazioni, peraltro non sempre facili, con il Centro estero del Pcd’I a Parigi e con l’organizzazione clandestina comunista che opera ad Avezzano. Sarà proprio lo smantellamento della rete abruzzese a condurre alla sua cattura e a quella di Lombardo Radice e Amendola.

Nel maggio 1940, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato lo condanna a cinque anni di detenzione, di cui due sono condonati per un decreto di amnistia; Lombardo Radice e Amendola sono condannati rispettivamente a quattro e dieci anni. Dopo la lettura della sentenza, mentre si trovano su un furgone cellulare che dal Palazzo di Giustizia li riporta a Regina Coeli, i tre amici intonano l’Internazionale e l’Inno alla gioia, quasi ad esprimere sollievo, come scriverà Natoli, per il fatto che la loro lotta contro il fascismo poteva finalmente assumere una forma diversa da quella che fino ad allora l’aveva caratterizzata:

«Era come se la condanna che ci aveva negato la libertà ci avesse insieme tolto una maschera alla quale eravamo stati costretti: adesso non c’era più luogo a menzogne, ognuno di noi si trovava faccia a faccia di fronte a se stesso, e a tutti gli altri».

Nonostante le durissime restrizioni a cui è sottoposto (tra cui un periodo in isolamento), dalle lettere non traspare affatto rassegnazione o disillusione. Al contrario, emerge con nettezza la serenità d’animo di Natoli, la sua concezione positiva dell’uomo, la sua capacità di trovare un equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva: la riflessione sui grandi classici della letteratura europea si accompagna, laddove possibile, all’esercizio fisico e a semplici sperimentazioni culinarie con gli scarsi mezzi a disposizione. A Civitavecchia, inoltre, Natoli stringe amicizia con contadini e operai, che guardano a lui con curiosità e rispetto, ma al principio con un misto di diffidenza per la sua estrazione sociale e per il suo essere un «intellettuale». Vinta questa iniziale ritrosia, nel “collettivo” del carcere vi è la possibilità di realizzare una comunità fraterna, fondata sulla solidarietà tra compagni, che si esprime in sedute di studio condiviso sui testi del marxismo e nella distribuzione egualitaria dei viveri. Ciò avviene nonostante le violenze e l’ottusità della repressione carceraria, che vieta e punisce duramente ogni gesto di generosità e cooperazione. Nel contatto giornaliero con un’umanità diversa da quella a cui è abituato Natoli matura per la prima volta un’autentica coscienza politica. La scelta antifascista si salda, definitivamente, con l’adesione agli ideali comunistici:

«La vita in carcere, e principalmente il “collettivo” che si era formato, fu la cellula in cui si generò per me la trasformazione dell’uomo. Ripensando a quegli anni posso dire che fu quello il momento in cui diventai comunista».

Una volta tornato libero nel dicembre 1942, si avvia per Aldo una brillante carriera politica, che nelle sue numerose fasi attraversa il Novecento: l’impegno nella Resistenza, la militanza nel Pci, l’approdo in Parlamento, le lotte sociali e per il lavoro a Roma e nel basso Lazio, l’esperienza nel gruppo de «il manifesto», il distacco dal giornale e infine la dedizione alla ricerca storica sull’antifascismo, su Mao, su Gramsci. Un itinerario complesso, che corrisponde alla bella definizione che una volta lo stesso Natoli diede di sé, rispondendo alla domanda di un compagno tranviere: «Sono un comunista senza partito».