SPECIALE BAVIERA #5: Dachau e il sistema concentrazionario della Germania nazista

di Andrea Oldani

Ci confrontiamo con l’eredità del passato nazista e con il suo impatto sulla società contemporanea tedesca. L’impatto iniziale con Dachau è differente da quello di Auschwitz-Birkenau poiché il campo non si trova nel mezzo della pianura polacca, bensì alle periferie della città di Dachau, attaccato a diverse villette a schiera. All’ingresso del memoriale si trova il centro di informazione turistico e, poco più avanti, sono rimasti i binari e la banchina da dove venivano fatti scendere i prigionieri e gli internati destinati al campo. Di fronte all’ingresso, al di là della rete che separa il campo dal resto della città, sorgono ancora la casa del comandante del campo, i fabbricati dove gli internati lavoravano per produrre armi, divise e componenti per le SS e gli alloggiamenti di quest’ultime, ad oggi centro di formazione per gli agenti di polizia.

L’atmosfera che ho respirato a Dachau era diametralmente opposta rispetto al composto e ossequioso silenzio di Auschwitz – Birkenau; ho avuto come l’impressione che la maggior parte dei visitatori non avesse compreso l’importanza del luogo che stava visitando. Mi sembrava che mancasse il rispetto dovuto a quelle migliaia di persone che hanno sofferto e sono morte in quel luogo. Varcato l’ingresso il visitatore trova di fronte a sé il piazzale dove venivano effettuati gli appelli, ed eseguite le sentenze pubbliche, e dietro di esso, un complesso edificio a forma di ferro di cavallo. Questo spazio, che durante il regime nazista ospitava alcuni luoghi comuni quali le docce, infermerie e mense, ora ospita una mostra permanente che ripercorre la storia del campo dal 1933 ad oggi.

Il percorso parte dai primi anni di attività del campo, durante i quali la quasi totalità dei prigionieri era composta da criminali, omosessuali e oppositori politici che, a differenza di quanto avvenisse nei campi di sterminio, potevano tenere alcuni effetti personali, farsi spedire del denaro dai familiari e, persino, tornare in libertà una volta scontata la pena. Nonostante queste condizioni va ricordato che le prime vittime del campo furono cittadini tedeschi. Progressivamente, con l’espansione del Terzo Reich in Europa iniziarono a confluire oppositori e prigionieri politici anche da altri paesi d’Europa: Austria, Cechia e Slovacchia, Ungheria, Yugoslavia, Polonia e Francia. Tra i casi che mi hanno impressionato maggiormente sono quelli dei 600 internati spagnoli antifranchisti e combattenti della Repubblica in esilio in Francia o il caso del sindaco di Vienna che si oppose all’insediamento del governo nazista all’indomani dell’Anschluss e che trascorse quasi sette anni nel campo, per poi tornare libero al momento della liberazione nel 1945.

In parallelo, il modello di gestione del campo di Dachau divenne un paradigma per gli altri campi di concentramento e sterminio che i nazisti stavano costruendo in Europa. La situazione nel campo iniziò a diventare critica quando iniziò l’internamento di migliaia di ebrei poiché il campo originale non era stato pensato per ospitare un numero elevato di internati. Le condizioni igienico – sanitarie peggiorarono e le epidemie divennero sempre più frequenti. A partire dal 1943 anche gli Italiani iniziarono a essere internati: partigiani, oppositori politici e IMI[1] che subirono un trattamento duro, al pari dei prigionieri di guerra sovietici che venivano usati come bersagli umani per l’addestramento nel poligono di tiro delle SS, in quanto colpevoli di aver tradito i Terzo Reich. Con la liberazione del 1945 i prigionieri vennero liberati, ma gli Americani non perseguirono a dovere i nazisti responsabili del campo. Ad oggi il campo di Dachau è un memoriale che ospita una mostra permanente che unisce sapientemente fonti materiali, fonti d’archivio audio – visive e le testimonianze dei sopravvissuti. Nella parte posteriore del campo sono stati edificati una chiesa cattolica, una luterana, una ortodossa e un memoriale ebraico. Dentro al bosco ci sono gli edifici che ospitarono i due piccoli forni crematori che non furono mai pienamente operativi in quanto edificati verso la fine della guerra quando il carbone scarseggiava.

 

 


Note:

[1] Soldati del Regio Esercito catturati dai Tedeschi e classificati nei campi come Internati Militari Italiani.

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